Inno alla memoria di Daniela Dessì

Le «bacchettate» che la vita impartisce ci riportano alla misura delle cose. Abituati, come siamo, ad appassionarci alle tragedie e ai drammi della scena, a vedere omicidi, suicidi e morti violente nell'alone poetico della verosimiglianza, quando la Commare Secca strappa un'artista ai suoi affetti e al pubblico, soprattutto quando giunge tanto prematura e colpisce un soprano in attività come Daniela Dessì, si rimane completamente sconcertati. Il canto che era la sua vita, condivisa con il compagno, il tenore Fabio Armilliato, nulla ha potuto contro la falce del destino. Forse per questo il mito di Orfeo che commuove le divinità infernali e riporta Euridice alla vita, da Monteverdi a Gluck, ci è tanto caro. Ammirata molte volte in scena, soprattutto in spettacoli scaligeri (brava e bella Alice Ford in Falstaff), Daniela Dessì mi insegnò qualcosa che forse ha reso più rispettosa e comprensiva la cosiddetta capacità di giudizio. Mentre si preparava a una sostituzione volante e improvvisa di una collega indisposta, durante la tournée della Scala a Mosca nel 1989, capii quante difficoltà e quanto carattere siano richiesti agli artisti, quanta paura e timore ci siano dietro ogni levata di sipario e quanto fragile e apparente possa essere la sicurezza dei cantanti.

Quell'esperienza giovanile mi ha reso, forse, un critico meno peggiore, certamente poco propenso a spargere lacrime di coccodrillo e mai dimentico che chi ha vissuto d'arte, come canta Floria Tosca, ha dato «il canto agli astri, al ciel, che ne ridean piu belli».

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