Era il 1966, avevo 13 anni e, dopo aver imparato i primi rudimenti del pianoforte da mia madre e qualche accordo sulla chitarra da mio cugino, avevo formato la mia prima band, i Misfitz. Tutti i venerdì sera ci esibivamo all'ostello della YMCA di Tuscaloosa, in Alabama, la cittadina dove vivevo. E proprio lì, per la prima volta, ho suonato un brano dei Rolling Stones, The Last Time. Probabilmente ne avrò ascoltati altri in radio, ma ricordo distintamente che quel pezzo fu il mio battesimo stonesiano. Ma rammento anche le discussioni, e le litigate, tra chi preferiva i Beatles e chi i Rolling Stones.
Questi ultimi, anche qui in America, avevano quell'immagine da bad boy che la famosa frase del loro manager Andrew Loog Oldham («Fareste uscire vostra figlia con uno degli Stones?») aveva contribuito a creare. Al contrario, i Beatles erano considerati i bravi ragazzi innocenti, carini e per bene. Ma più canzoni dei Rolling Stones uscivano e venivano trasmesse in radio e più crescevano la loro importanza e la loro influenza. Direi che dai primissimi anni Settanta cominciarono a essere super rispettati sia come autori che come interpreti. E, una volta che i Beatles si sciolsero, diventarono la più importante rock band inglese negli States. In quegli stessi anni, io suonavo nella Allman Brothers Band, uno dei gruppi preferiti di Bill Graham, il grande promoter americano di concerti rock. E, grazie a ciò, io e lui diventammo amici tanto che, nel momento in cui gli Allman Brothers decisero di fare una pausa, Graham organizzò diversi show della mia band, i Sea Level.
Quando poi, nel 1981, Bill diventò tour director degli Stones, sapendo che loro erano alla ricerca di nuovi musicisti da inserire, suggerì il mio nome. Mi recai così agli studi Long View Farm, a North Brookfield, Massachusetts, dove stavano facendo le prove per l'imminente tour americano. Il provino andò molto bene e, in quei tre giorni, feci amicizia con Ian Stewart. Stavo per prendere quel posto vacante quando, come si sa, venne scelto Ian McLagan. Poi, a metà del tour, gli Stones decisero di fare un concerto non annunciato al Fox Theater di Atlanta. E fu allora che Stu mi chiamò per invitarmi a salire sul palco con loro: era il 24 ottobre 1981. Alla fine della tournée americana, ricevetti un'altra telefonata da Ian Stewart: la band avrebbe dovuto fare una serie di concerti in Europa nell'estate del 1982 e... mi voleva! Da quel momento, non avrei più lasciato i Rolling Stones.
Ricordo che mi trovai subito bene con loro, sia dal punto di vista musicale che da quello dei rapporti umani: mi fecero sentire a mio agio e furono tutti molto collaborativi. E se il mio legame d'amicizia con Stu ne uscì rafforzato e mi fu facile andare d'accordo con Bobby Keys (eravamo entrambi del Sud degli States), ricordo con grande piacere straordinarie serate a jammare in camera di Keith. Dopo quella tournée, gli Stones non salirono sul palco per sette anni, ma mi invitarono a suonare in studio per un paio di album, Undercover e Dirty Work. Anche Jagger mi chiese di collaborare al suo album solista She's The Boss. Insomma, in un modo o nell'altro, siamo sempre rimasti in contatto. Nel corso degli anni, il mio ruolo si è evoluto sino a farmi diventare direttore musicale. Significa che sono io a occuparmi degli arrangiamenti e a ricordare a tutti le parti nei vari brani. Ho annotato ogni dettaglio in due quaderni dove ho scritto a mano spartiti, appunti e quant'altro serve per poter ricordare tutto. Le canzoni, 200 circa, sono state catalogate in ordine alfabetico. Mi porto questi bloc-notes con me durante le prove, in caso dovessero servirci; per me sono davvero qualcosa di prezioso e li tengo da conto. Il mio compito è però anche quello di far sì che i ragazzi possano cantare e suonare esattamente come vogliono, oltre a creare coesione artistica e personale nel gruppo. Lavorare con i Rolling Stones è impegnativo, ma gratificante. E anche se, a differenza degli Allman Brothers, c'è molto meno spazio per improvvisazioni e assolo, credo che il mio ruolo con la band di Mick e Keith, che sono grandi professionisti e hanno una solidissima etica del lavoro, sia più rilevante rispetto a quello che avevo con gli Allman. In 40 anni, penso di aver suonato oltre 1000 concerti con gli Stones e ne ricordo pochissimi di mediocri: anzi, direi che la maggior parte siano stati persino superiori alle nostre stesse aspettative. Sono orgoglioso di aver sempre dato anima, cuore e passione in ogni singolo show. Non poteva essere altrimenti per rispetto di una band che ha saputo superare momenti durissimi e si è sempre saputa rialzare. «Non mollare mai, a prescindere da tutto e da tutti» sembra essere il loro motto.
La scomparsa di Charlie Watts è stata l'ultimo, tremendo colpo basso. Mi è ancora difficile persino parlarne, perché a lui mi hanno unito tante cose e ho migliaia di ricordi, artistici e personali. È sempre stato gentile, rispettoso e abbiamo trascorso ore e ore a conversare su questioni che ci stavano a cuore: gli sarò sempre grato per la sua amicizia. Charlie è stato il batterista perfetto per gli Stones, naturalmente elegante in ogni suo intervento.
Ci manca moltissimo, ma, come ci ha detto qualche tempo prima di andarsene, voleva che continuassimo anche senza di lui per festeggiare il sessantesimo anniversario della band... già, 60 anni di Rolling Stones, non è incredibile?
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