L'estate scorsa, dice Elif Shafak, è stata «molto turbolenta, molto triste». Il suo Paese, la Turchia, ha subito prima l'attentato dell'Isis all'aeroporto di Istanbul, poi il colpo di stato fallito contro Erdogan. «Sono totalmente contraria a questo tentativo di golpe. Ha reso tutto peggiore. Ci sono state epurazioni. C'è una tensione continua, che ovviamente colpisce ogni ambito: concerti cancellati, vendite di libri crollate, mostre diminuite. Ma abbiamo bisogno dell'arte e della letteratura per respirare, per immaginare». È il mestiere di Elif Shafak, la scrittrice più letta della Turchia: La bastarda di Istanbul è stato un bestseller che le ha causato anche un processo per offesa all'identità turca, con «gli ultranazionalisti che protestavano contro di me nelle strade, sputavano sulla mia foto... Ho partorito mio figlio e il giorno dopo ero in tribunale. Per due anni ho vissuto con le guardie del corpo» racconta da Londra, dove vive. Ora torna con un nuovo romanzo, Tre figlie di Eva (Rizzoli), che presenta questa sera a Milano, all'inaugurazione di Bookcity (alle 19 al Teatro dal Verme, dove riceverà il Sigillo della città). La protagonista è Peri, trentacinquenne madre di tre figli della ricca borghesia di Istanbul con un passato da studentessa brillante a Oxford, che ripercorre la sua vita, a partire dalla sua famiglia: la madre iperreligiosa, il padre moderno che la spinge a studiare, un fratello ribelle che finisce torturato e in prigione, un altro ultranazionalista. «La Turchia è un paese molto polarizzato e molto politicizzato. E non solo la società è divisa, a volte lo sono le famiglie stesse. La religione è uno dei tanti fattori di divisione, ma non il solo. La classe sociale, l'etnia, il nazionalismo, la politica: tutto crea ulteriori divisioni. In Turchia abbiamo perso la cultura della coesistenza. Al contrario ci sono troppa tensione, troppa rabbia».
Il fatto è che Istanbul, dove Elif Shafak torna spesso, è «una città affascinante, di bellezza e di conflittualità. È piena di storia, ma è senza memoria. È diventata un luogo di amnesia urbana. E molte persone vivono divise in ghetti invisibili». Una volta la Turchia era l'«invidia del mondo musulmano», oggi... «Oggi i liberali e i democratici turchi si sentono isolati e depressi. Così tanti giornalisti sono finiti sulla lista nera, sono stati stigmatizzati, oltre 130 sono in prigione. Ci sono scrittori, accademici, studiosi in prigione. È triste vedere quanto la libertà di espressione sia stata schiacciata e, come donna, sono preoccupata anche della retromarcia nei diritti delle donne».
Shafak avrebbe voluto intitolare il libro L'Ultima cena della borghesia turca: quella che a cena, fra esponenti dell'alta società, sbeffeggia la democrazia. «La Turchia è una società di Baba, di padri. Siamo sempre stati abituati ad avere padri autoritari a scuola, nello sport, in politica. Sempre. Perciò molte parti della società, come la borghesia, si comportano come un bambino che ha paura del suo padre severo. E, allo stesso modo, molte persone si rapportano alla religione in termini di paura». Ma nello scontro della storia personale di Peri, che poi è quello attuale fra tradizionalisti e modernisti, chi sta vincendo? «Tristemente, nel mondo, ci sono troppo bigottismo e dogmatismo. Ma aumentano anche i populismi, i nazionalismi, il conservatorismo religioso e la xenofobia». Soprattutto, cresce quella che lei definisce l'«ideologia dell'identicità»: «Sono critica di tutti i generi di ideologie che sono imposte dall'alto, per creare una società monolitica. È quello che gli islamisti stanno cercando di fare, è quello che i regimi ultranazionalisti e autoritari stanno cercando di ottenere. Quello che hanno in comune è che non amano la complessità: non possono tollerare opinioni diverse».
Le opinioni possono costare caro in Turchia. «Ogni scrittore, giornalista o poeta sa che, per un libro, una poesia, un articolo e qualche volta perfino un tweet possiamo finire nei guai. In un giorno possiamo essere demonizzati dai media filogovernativi, linciati sui social, perfino denunciati e messi a processo, perfino imprigionati o esiliati. E per le scrittrici è anche peggio. Così, alla fine, molti scrittori e giornalisti cercano di sopravvivere autocensurandosi». Anche molti amici di Elif Shafak sono finiti in prigione, come il linguista Necmiye Alpay, lo scrittore Asli Erdogan, il giornalista Sahin Alpay, lo studioso Mehmet Altan, il romanziere Ahmet Altan, l'editor Turhan Gunay, il direttore del quotidiano Cumhuriyet Murat Sabuncu... «Basta esprimere o scrivere una critica per essere chiamati traditori». Per le donne, spiega Shafak, è ancora più difficile. «La Turchia è un paese molto patriarcale, sessista, omofobo. La violenza domestica è sempre più diffusa. Stupri, incesti, omicidi d'onore: argomenti di cui molti non vogliono parlare, ma dobbiamo farlo». È un problema, dice, «di leggi e di testa, che devono essere cambiate». Lei stessa, nata in un ambiente internazionale, cresciuta da una madre «moderna», una donna divorziata che intanto studiava e faceva carriera e da una nonna «tradizionale» in un quartiere «molto conservatore di Ankara», ha scoperto il pregiudizio in casa: «Mi ricordo che una sera mia madre era tornata un po' in ritardo. Mio nonno ci buttò fuori entrambe di casa. Era preoccupato che i vicini chiacchierassero... Quella notte ho promesso a me stessa che sarei diventata indipendente».
Ogni personaggio del romanzo, in fondo, lotta per questo: «È il desiderio di andare oltre i confini del Sé. Come possiamo distruggere quei muri che sono eretti intorno a noi e dentro le nostre menti? E, specialmente noi donne, come possiamo raggiungere la libertà? Il mio libro è una celebrazione della lotta per la libertà».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.