Montanari e la tragedia della colpa

Un poliziotto volontariamente ai margini della società ne smaschera le ipocrisie

Montanari e la tragedia della colpa

Un nuovo romanzo di Raul Montanari è sempre qualcosa che si aspetta con curiosità: perché lo scrittore milanese è sempre capace di stupire i lettori per un'onestà letteraria e intellettuale che ha pochi eguali.

Montanari non è scrittore da protagonisti seriali, da poliziotti ispettori investigatori pronti a timbrare il cartellino della carta un anno dopo l'altro (se va bene). Montanari è il più indipendente degli scrittori più letti: non serializza, ma la sua intenzione è quella di costruire un corpus narrativo che registri le scosse telluriche del contemporaneo anche attraverso una scrittura minuziosa, certosina, dove ogni termine e ogni parola fanno comprendere che è ricercata e cesellata, pur senza mai cadere nel costruito. Montanari è uno dei narratori italiani più attenti non solo alla costruzione dei propri romanzi - caratterizzati da uno schema che rimanda alle altezze della tragedia greca - ma anche nel creare protagonisti capaci di entrare nel tempo senza vendersi ai poteri del tempo.

Adesso arriva nelle librerie con Il vizio della solitudine (Baldini+Castoldi, pagg. 330, euro 19), un romanzo che racconta come la solitudine sia un vizio, non quella imposta dalla società, non quella imposta da urgenze sanitarie, ma la scelta di una auto-reclusione volontaria, lontano dal mondo senza per questo escluderlo. Una solitudine interiore che viene da lontano, da non confondersi con la melanconia. E frutto di uno spirito nemmeno nichilista ma che, per propria natura, vede nella solitudine la libertà. Più che un vizio, è un istinto: non di protezione, non di inclusione, ma un modo di concepire la vita stessa dove tutto è più difficile, ma alla fine necessario.

Necessario perché il protagonista, l'ex ispettore Ennio Guarnieri, cacciato dalla polizia per aver delegittimato un superiore, trova nella propria vita appartata il giusto equilibrio. Ripete che non ha bisogno di nessuno, ma ha bisogno di tutto: di amori mancati, persi, dimenticati, di amori che ancora bussano alla porta della sua mente con le dita di quei pensieri che gli sfiorano senza tregua il viso. Ennio Guarnieri è un uomo che nelle sue investigazioni ha sempre affrontato il Male, ma il Male non ha mai frequentato lui: ora, invece, si trova a dover affrontare il buio del suo lato oscuro, quello che ha sempre cercato, ma al contempo evitato. Sin dall'infanzia, cresciuto da due genitori anaffettivi, senza apparenti prospettive per il figlio se non quello della sicurezza.

Montanari è abilissimo, proprio attraverso la figura del padre e della madre, a raccontare un'epoca: quando imparare l'inglese, ottenere la laurea, un lavoro sicuro e una brava ragazza costituivano per loro l'unico orizzonte possibile di una vita degna di essere raccontata. Un amore incondizionato, forse cieco, ma il massimo amore che potevano concepire, e proprio per questo amore. Il protagonista si ribella a tutto questo: nelle sue indagini cerca di dimenticare una vita pacifica e senza scosse. Anche se è mosso da un'inquietudine interiore che a volte diventa rabbia inaspettata, sa che non sono i proiettili a uccidere, ma i sentimenti. Al di là della trama noir - che sembra riportare Montanari da dove è partito nel 1993 con La perfezione (Feltrinelli) - in realtà questo ritorno è una nuova partenza. Perché Montanari, esponente del neo-noir dove sono i sentimenti dei protagonisti a essere oscuri, dove le investigazioni sono esistenziali, fa un ulteriore passo in avanti, forse il più deciso, nel suo progetto di un unico corpus narrativo. Ci tiene in sospeso a ogni pagina con una trama che si sveste da investigazione per farsi interrogativo. Un interrogativo che riguarda tutti noi che, pagina dopo pagina, ci sentiamo, se non colpevoli, almeno responsabili: di una società che permette ogni nefandezza che facciamo finta di non vedere, perché diciamo che è criminalità organizzata, come se questo fosse l'alibi perfetto per non occuparcene se non nella cronaca nera dei giornali. Con atmosfere che richiamano in certi passaggi la natura, non solo etica, de Il corvo di Poe (tradotto da Montanari per Feltrinelli), con paradigmi familiari che ricordano l'Antigone di Sofocle (del quale Montanari è traduttore) più che di Edipo: per il desiderio dell'eroina di emanciparsi.

Perché in questo

romanzo, come in alcuni precedenti, la voce narrativa di Montanari è così delicata da farsi femminile. Una sensibilità rara che gli ha permesso di ritrarre donne che rimangono: nel cuore di chi scrive e in quello di chi legge.

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