Cultura e Spettacoli

Perché c'è bisogno di giudizi (purché leali e autoironici)

Lo smarrimento di un grande scrittore davanti alla perdita di autorevolezza della critica in letteratura, arte, teatro

Perché c'è bisogno di giudizi (purché leali e autoironici)

In un tempo abbastanza infelice come il nostro, che ne è della critica? Critica letteraria, critica d'arte, critica teatrale, critica in generale. Non è che i critici siano scomparsi, però è un fatto che, nel gran mondo della produzione, dell'industria culturale il loro ruolo, dove più dove meno, si è ristretto. Fino a quindici, vent'anni fa una recensione poteva decidere la fortuna o il flop di uno spettacolo o perfino di un romanzo, oggi è molto più difficile.

Certo, le posizioni cambiano con il tempo, ed è giusto farsene una ragione. Una decina d'anni fa il compianto Angelo Guglielmi mi invitò a partecipare a un convegno sul rapporto tra cinema e letteratura nel contesto della globalizzazione. Al telefono non riuscii a esimermi da una domanda: come mai lui, che in passato aveva sempre detto male di me, ritenendomi non solo un pessimo scrittore ma un non-scrittore, adesso dimostrava per me sufficiente stima da invitarmi a un incontro come quello? La sua risposta fu semplice: quelli erano altri tempi. Le cose erano cambiate, il contesto era diverso. Nel nuovo contesto, io ero diventato più interessante, le vecchie parole non contavano più, erano lettera morta. Riconobbi in lui il marxista ortodosso, interessato a leggere le metamorfosi della cultura in rapporto con altri contesti (economico-produttivo, sociale, politico). Come cambiava dunque la produzione letteraria nell'epoca di internet, di blockbuster (i social e Netflix non esistevano ancora)?

Come dicevo, non è che i critici siano scomparsi. Le pagine di recensioni dei vari organi di stampa, cartacei e online, portano la firma di diversi valenti critici, il cui statuto però non è più esclusivo. Gli articoli più prestigiosi sono spesso affidati a scrittori, alcuni dei quali (penso a Alessandro Piperno o Antonio Scurati, Walter Siti e altri) ci offrono spesso bellissime lezioni di letteratura. La ragione di tutto questo è che uno scrittore, con ogni evidenza, si pone con un'autorevolezza di cui la critica sembra oggi incapace.

Di qui la mia domanda: perché la critica ha perduto l'autorevolezza di venti, trent'anni fa? Perché il critico sembra non uscire più dallo specialismo nel quale tanti eventi sembrano averlo relegato?

Le osservazioni sul tema possono essere tante: dalla sempre maggiore velocizzazione del consumo culturale alla crisi di prestigio dell'università, fino alla perdita di centralità della letteratura rispetto ad altri media - come le serie tv - che appaiono non solo più adeguati ai tempi ma anche più ricchi di possibilità creative nell'elaborazione della vicenda, nella gestione dei personaggi, e così via.

Ma forse è il caso di chiedersi anche: che cosa fa un critico? Qual è l'azione importante, insostituibile che ci aspettiamo da lui? Ce ne aspettiamo ancora una? Per rispondere bisognerebbe capire anzitutto che cosa non è un critico.

Un critico non è uno scrittore. Un critico non è un sociologo della letteratura. Un critico non è un linguista. Un critico non è un filologo. Un critico non è un filosofo, nemmeno un filosofo estetico. Questo non significa che un critico non debba essere anche una di queste cose, ci mancherebbe. E non vuol dire nemmeno che un critico debba rinunciare al proprio gusto, che è forse la cosa più importante e rara che ci sia, perché la costruzione di un gusto vuole tempo, pazienza, errori e correzioni: cose oggi difficili da potersi permettere.

Ma la critica compie un'azione precisa, ed è di quell'azione che molti di noi sentono la mancanza.

Ho ascoltato le dichiarazioni di molti critici sullo stato della nostra letteratura, e la mia impressione è che un certo vecchio vizio non sia scomparso: quello di definire la critica anzitutto come un discorso sul destino della letteratura. Non faccio nomi, poiché fin dal De Sanctis questo è stato il grande indirizzo della critica italiana. Il rinnovamento delle Patrie Lettere, il pirandellismo, i nipotini di Gadda, e via e via, fino all'attuale dichiarazione di morte del romanzo di fiction (una morte generalmente datata con Pastorale Americana di Philip Roth, anno 1997) e alla beatificazione della non-fiction e dell'autofiction, sorelle minori di quell'extrème contemporain che in Francia ha prodotto i capolavori di Pierre Michon, Annie Ernaux e altri.

Ora, non è necessario dubitare che per molti le cose oggi stiano così, che uno scrittore, liberatosi dalle pastoie del simbolismo, possa trovare nuove strade/strategie per liberare le sue qualità, la sua voglia o bisogno di raccontare. Con un po' d'ironia, però, anche perché in arte come nella vita nessuna sentenza è definitiva. Proprio per questo abbiamo ancora bisogno di critici che, senza rinunciare alle proprie convinzioni e soprattutto al proprio gusto, sappiano compiere quel necessario passo in più per riconoscere, semplicemente, il valore là dove si trova. Un critico è chi dice: non mi piace la tua idea di letteratura, però tu sei uno scrittore. O viceversa. Solo da questa lealtà (che richiede molta autoironia) si può sviluppare una dialettica feconda, senza complicità, fra critico e artista.

Un'ultima osservazione. C'è una questione ontologica che merita di essere presa in esame, e che cerco di esprimere in forma interrogativa. Un'opera coincide con la somma delle scelte (di genere, di stile, di contenuto ecc.) compiute dal suo autore o c'è qualcosa che eccede, un residuo, un fattore «x» che non permette all'opera di ridursi alle sue coordinate e lascia un margine di irrequietezza in chi legge o guarda o ascolta? In questa irrequietezza ontologica (sempre che esista) risiede, credo, la possibilità di crescita di un temperamento critico.

Del quale, a mio parere, c'è ancora bisogno.

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