John Updike (1932-2009) è un famoso scrittore americano conosciuto anche in Italia per la quadrilogia incentrata sul personaggio di Harry Angstrom, detto «Coniglio», campione di basket al liceo, poi borghese insoddisfatto e con un matrimonio in crisi. Ora la casa editrice Big Sur mette insieme Vita e avventure di Henry Bech scrittore (pagg. 632 pagine, euro 24; trad. di Stefania Bertola, Lorenzo Medici e Attilio Velardi), ovvero i venti racconti, alcuni mai tradotti, che a partire dagli anni Sessanta Updike dedicò a questo personaggio di fantasia, incarnazione però di un ben preciso tipo di scrittore: newyorkese, ebreo, rivoluzionario al suo esordio, per stile e contenuti, reazionario via via che la sua carriera si assesta, erotomane e quindi dalla ricca quanto disordinata vita sessuale, con lunghi periodi di eclisse creativa e improvvise fiammate che lo riportano alla ribalta... In sostanza, come Updike nell'introduzione al libro si diverte a scrivere a sé stesso firmandosi con il nome del suo personaggio di finzione, una sorta di cocktail in cui un lettore avvertito può riconoscere qui un goccio di J.D. Salinger, lì un sentore di Norman Mailer, ora un accenno di Saul Bellow, ora un retrogusto alla Philip Roth, per non parlare dell'ironico quanto perfido ritratto di un critico letterario, spregiatore di Bech, e da questi ucciso in un delirio di giustizia fai da te, che altro non è se non Harold Bloom, il celebre autore de Il canone occidentale...
Va aggiunto che i tic, i vezzi, le manie, gli ambienti di Updike-Bech si possono agevolmente rintracciare in certa cinematografia di Hollywood, i film e i personaggi di Woody Allen, per intenderci, così che leggendo questo romanzo, come dire, involontario, perché frutto di un assemblaggio che ha però una sua intima coerenza, il lettore avrà la sensazione di imbattersi ora in Manhattan, ora in Io e Annie, tanto da chiedersi che abbia citato chi, ovvero quale sia la fonte e insieme l'humus di fondo: umorismo yiddish con genitori ingombranti, relazioni promiscue all'interno di una stessa famiglia, due sorelle per un unico amante, strizzacervelli e amore per le metropoli, eccetera...
Updike è uno scrittore importante, ma il suo Bech lo è ancora di più, visto che il suo creatore arriva a fargli vincere il Nobel, altra perfidia dato che eccetto Bellow, con cui del resto Bech condivide una robusta sessualità da vecchio, nessuno di quelli che possono definirsi della sua generazione è mai arrivato a tanto. Del resto, il romanzo da Bech più amato, Gli eletti, è stato quello più stroncato dalla critica e il più da lui odiato, Pensare in grande, è stato invece il suo unico best seller, ovvero, sembra dirci Updike, non bisogna credere ai critici, così come non ci si può fidare del giudizio degli scrittori, troppo narcisi per essere obiettivi. Tanto meno bisogna dar credito ai premi letterari: Bech, infatti, vince il Nobel perché a Stoccolma «c'era chi temeva che un americano più credibile potesse vincere»...
Attraverso questo personaggio, naturalmente Updike parla anche di sé, dei suoi gusti, delle sue convinzioni politiche. Ecco come definisce gli studenti di un corso di letteratura inglese tenuto dal primo alla Columbia University nel 1963: «In politica prendevano in giro e convinzioni liberali care a Bech; i loro gusti li avvicinavano a confusionari scrittori di scarsa levatura come Miller e Tolkien»... Ed ecco come, durante un viaggio in Cecoslovacchia, nel 1986, liquida di fronte ai giovani cechi il minimalismo made in Usa: «Non sono sicuro che ci sia una nuova ondata. È più che altro un'incessante risacca. I giovani scrittori che incontro mi sembrano tutti piuttosto vecchi». E, a proposto di Meno di zero, il romanzo di Bret Easton Ellis, allora di gran moda: «Bel titolo. Dopo i minimalisti, cosa ci può essere se non una pagina bianca? Sarà un sollievo, non trovate?».
Anche Bech è un puro prodotto dell'America cittadina, meglio newyorkese, pur avendo esordito con un romanzo on the road di totale invenzione: «Non aveva mai sentito nelle ossa la realtà di cui è fatta l'America: avamposti desolati, capanne di legno sigillate con muschio e fango»... In comune con il suo creatore, ha l'ebraicità, alla lunga stucchevole e un po' razzista, e che gli fa guardare con diffidenza tutto ciò che è Europa, la sua storia, le sue guerre di religione, il suo cattolicesimo. In fondo, il suo amore per l'America si basa sul fatto che «niente pogrom in Usa», un modo più o meno elegante per sorvolare sul genocidio dei nativi americani, vale a dire gli indiani, così come sulla questione razziale: il Ku Klux Clan i negri in fondo si limitava a bruciarli, quando non li impiccava.
Nei racconti che compongono Vita e avventure di Henry Bech scrittore, ci sono qui e là battute fulminanti: «Forse non le piace il modo in cui i paesi comunisti hanno sposato il capitalismo» dice a proposito di una ragazza con cui poi avrà una storia: «Hanno preso i mafiosi e lo sfruttamento delle masse e lasciato perdere tutto il resto». Oppure riguardo le «tipiche bellezze rumene, fra loro però diversissime», incontrate in un viaggio nell'Est Europa: «Sono ugualmente tipiche. Siamo una democrazia perfetta» si sente rispondere da un tipico funzionario del regime di Ceaucescu... Infine, ecco un accenno a come funzioni certa editoria made in Usa (ma non solo): «Aveva fondato una casa editrice tutta sua, specializzata in scrittori d'avanguardia scartati dagli altri editori e in raffinate antologie di materiale poetico fuori diritti. Un fortunato libro di ricette (zuppe corroboranti) e un manuale di Preghiere per Umanisti avevano scongiurato la bancarotta. E ora, grazie soprattutto alle sue capacità di convincere avvocati e tipografi a lasciargli pubblicare scrittori americani sempre più osceni, era diventato ricco».
Narcisista, pavido, svogliato, uno che gira il mondo, ma desiderando solo di starsene a casa, Bech è «un americano per cittadinanza e un ebreo non praticante per religione. Eppure quando scrivo non sono nient'altro che un esemplare della mia specie travagliata e trionfante che aspira, forse, a parlare anche per i primati, i vertebrati e persino i licheni».
Degli altri scrittori, e in fondo della letteratura in quanto tale, gli importa poco: «Non gli sarebbe dispiaciuto se tutti gli altri scrittori fossero scomparsi, lasciandolo da solo su un pianeta deserto assieme a un miliardo di lettori anglofoni». Chi anglofono non è, e neppure americano, dopo settecento pagine trova che Bech è un grande scrittore di cui però si può fare a meno.
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