Dice Svetlana Aleksievic: "Cerco di raccontare i destini e le storie delle persone semplici. E, attraverso le loro piccole tragedie, mostrare quelle grandi, le tragedie della Storia". È quello che fa da oltre trent'anni, da giornalista e da scrittrice. Nata in Ucraina nel 1948, cresciuta in Bielorussia, ha fatto parlare, nei suoi libri, le vittime di Chernobyl, i soldati russi della guerra in Afghanistan, le donne sovietiche protagoniste della Seconda guerra mondiale. I russi di oggi, come in Tempo di seconda mano, racconto della vita in Russia dopo il crollo del comunismo. E i più piccoli, come nel libro-reportage, da poco pubblicato in Italia, Gli ultimi testimoni (Bompiani): l'invasione nazista della Bielorussia vista con gli occhi dei bambini di allora, centinaia di voci che ricordano la tragedia e l'orrore. Il premio Nobel della letteratura 2015, che parla solo russo, è in Italia e oggi sarà protagonista di un incontro a Barolo, al festival "Collisioni".
Perché ha scelto di scrivere libri "collettivi", corali?
"Credo che le persone siano deluse dai generi letterari romanzeschi, di fiction, che raccontano una storia inventata. Le persone desiderano conoscere quello che succede: sono interessate alle storie dei testimoni, coloro che hanno visto quello che è successo, la Storia. Così si ottiene un romanzo più forte, meno usuale, in grado di colpire le coscienze".
Quanto tempo impiega a scrivere i suoi libri?
"Almeno dieci anni per ogni libro. Intervisto almeno cinquecento, anche mille persone. Amo intervistare quelle persone colpite dagli eventi, che li raccontano e lo fanno in modo non banale, che sanno ragionarci sopra, e non solo raccontarli. Non amo essere definita una scrittrice catastrofica, che parla di eventi terribili: amo raccogliere le storie dell'epoca in cui vivo, e la storia dei sentimenti delle persone. In oltre trent'anni ho descritto la storia dell'impero rosso".
Che cosa è più difficile?
"Convincere le persone ad allontanarsi dalla propaganda, dalla banalità, dalla cultura delle vittime che è stata loro insegnata. Farle ragionare con la loro testa, farle raccontare la loro verità. La questione fondamentale è: qual è il senso della loro sofferenza, se non sono in grado di convertirla in libertà?".
Che cos'è la cultura delle vittime?
"Essere vittima diventa una sorta di scappatoia. A una vittima non è concesso di pensare alla sua libertà e a come costruirla, una vittima sa che può solo urlare al mondo che è vittima, non pensare a costruire la libertà. Queste persone, che dicono di essere vittime, vivono in un loro mondo: un atteggiamento che ricorda quello del passato sovietico, non c'è uno sviluppo".
Le storie che racconta sono spesso terribili. Piange mai?
"È una domanda da porre a un chirurgo che opera dei bambini... Se non fossi sincera, cruda con la gente, la gente non lo sarebbe con me. È una sincerità reciproca, che mi porta poi a scrivere storie così toccanti".
Il suo stile è apparentemente semplice, ma sconvolgente. Come lo ottiene?
"Le persone di solito non parlano con pathos: riporto la voce delle persone. Non è uno stile pensato, è la realtà di quello che le persone dicono. E le persone parlano soprattutto quando sono vicine allo stato di amore o di morte: questi sono i momenti che descrivo nei miei libri".
Esiste ancora l'"uomo sovietico"? Chi è?
"Questo nuovo tipo di persona che i comunisti volevano formare esisteva ed esiste ancora, sicuramente. Questo tipo di persona ora è quello che compone l'entourage di Putin. Alla gente sembra di vivere in una fortezza, la Russia, circondata da nemici. Per questo ho scritto Tempo di seconda mano: l'uomo sovietico non è morto, e non vuole morire".
L'uomo russo è diverso dall'uomo sovietico?
"Sicuramente l'uomo russo è una persona diversa, ai tempi dello zar viveva la sua vita in modo più libero e indipendente. Ma la storia russa ha preparato la nascita dell'uomo sovietico, è stata il suo terreno fertile, perché ha fatto sì che il comunismo vincesse. Uno degli slogan più importanti di Lenin era: Ruba quello che ti è stato rubato. Perché in Russia non piace la gente ricca, la mentalità russa rifiuta la ricchezza".
Perché racconta sempre la sofferenza sovietica?
"Perché vivo in questa nazione, perciò scrivo la nostra Storia. In 35 anni di lavoro ho incontrato persone che sono vissute all'epoca di Lenin, e altre che hanno assistito al crollo dell'Urss. È la mia patria".
Dopo anni di esilio è tornata a vivere a Minsk. Come vive oggi, dopo il Nobel? C'è ancora censura nel suo Paese?
"Prima di tutto vorrei dire che non sono mai stata in esilio: è stata una emigrazione per conto mio, nessuno mi ha mandato via. Oggi, in pratica, i miei libri sono in vendita, ma non li pubblicano: la censura esiste in Bielorussia. I miei libri sono pubblicati da case editrici russe, e poi in tutto il mondo: è difficile non farmi lasciare parlare... Diciamo che il potere bielorusso tace, fa finta di non vedermi, ma io ci sono e ci sarò, e parlerò comunque".
Il suo prossimo progetto?
"Un libro che parlerà di amore, uomini e donne che parlano di amore. Sarà un racconto, perché la nostra gente vuole essere felice, ma non riesce".
Ha deciso come spendere i soldi del premio Nobel?
"Ho comprato una casa fuori città, per avere un posto dove posso scrivere".
È credente?
"Credo in qualcosa di superiore, ma da artista. Oggi in Russia c'è una isteria religiosa, alla quale non mi sento di appartenere".
L'impero rosso che Lei racconta è stato tutto un fallimento? Si può ancora credere nell'utopia, oggi?
"Questa utopia tornerà più volte, e
non solo in Russia. Per questo ho scritto i miei libri, per raccontare questa realtà, che cos'è. Di come sembrasse una bella utopia e invece sia stata una grande fossa comune. Anche le idee devono avere una responsabilità".
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