Cultura e Spettacoli

Romana, il più talentuoso dei critici

Profondo conoscitore di musica, il suo stile è diventato un modello

Romana, il più talentuoso dei critici

Da noi, in redazione, legava la sua sedia alla scrivania con una catena da motocicletta. Era fatto così Cesare G. Romana, chiuso, ombroso, quasi sgarbato per chi non lo conosceva. Era il decano dei critici musicali, qualcuno lo definiva un poeta in un mondo di pennivendoli, barba e baffi incolti e capello lungo, montgomery blu e l'inseparabile borsello che accentuava quella sua aria fuori dal tempo. Era ruvido Cesare, ma sempre educato e corretto nella vita e nei racconti musicali che faceva sul Giornale, e che gli avevano procurato legioni di fan.

Giocava in casa Cesare, perché era amico fraterno di Fabrizio De André e amico della prima generazione di cantautori genovesi, da Luigi Tenco a Gino Paoli passando per Bruno Lauzi. Umorale, scontroso sì ma nei momenti giusti sapeva sfoderare tutta la sua simpatia. A cena ad esempio, dopo qualche bicchiere, si lasciava andare a esilaranti racconti e aneddoti sui personaggi più svariati. Come quella volta che raccontò che un collega, oggi famoso e pomposo, al Festival di Sanremo intervistò un attrezzista, vestito in modo elegante, scambiandolo per il direttore dell'orchestra.

Scoprii la sua simpatia prima di entrare al Giornale (lui entrò nel 1975, scelto personalmente da Indro Montanelli, io nel 1989) in alcuni pranzi a Portofino con Puni, la prima moglie di De Andrè. In quelle occasioni era amabile e ciarliero in contrasto con quel suo ostinato silenzio redazionale, interrotto soltanto dalle sue risate alle battute caustiche del compianto critico di cinema Massimo Bertarelli.

Romana era nato a Sassello, in provincia di Savona, nel 1942 ma si considerava genovese (e oramai anche un po' milanese) a tutti gli effetti. Aveva iniziato a scrivere di cronaca nera e aveva debuttato nel 1961, a 19 anni su Il Lavoro di Genova. Si fa notare subito per lo stile, colto, ricercato e ricco di immagini ma mai superbo o sopra le righe. Quando parlava di un artista lo fotografava nella sua essenza. «Bisogna interessare il lettore parlando di musica - mi diceva - bisogna affabularlo perché le parole non suonano, ma devono persuadere». Non si perdonava di aver salutato Tenco, partito per il suo fatale Festival del 1967, con il motto: «Va' e torna vincitor» citando l'opera di cui era tanto appassionato. La sua amicizia con De Andrè lo ha portato a decine di avventure insieme; alcune Cesare le raccontava, altre le custodiva gelosamente nello scrigno dei suoi ricordi.

Comunque ha scritto due libri storici su Faber come Amico fragile del 1991 e Smisurate preghiere nel 2005. Ma tra le sue biografie spiccano anche quella di Gino Paoli e Paolo Conte. Da qualche anno non era più al Giornale, un po' per colpa del suo cuore ballerino, un po' per qualche disaccordo con la linea redazionale che lui, vecchio anarchico un po' nostalgico, non riusciva a perdonare.

Nell'ultima decade era praticamente scomparso dalla scena, lontano anche dal web, a coltivare per se stesso la musica che più amava e che tanto gli aveva dato.

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