Tempi grami. La crisi entra anche nei luoghi della musica. La creatività è avviata verso climi quaresimali. L'edizione di Lohengrin, l'opera romantica di Richard Wagner prescelta per la serata inaugurale della stagione 2012-'13 del Teatro alla Scala di Milano, non ha fatto eccezione. La moda corrente ritiene l'epopea ambientata nel X secolo una metafora bisognosa di filtri attualizzanti, i più adatti ad avvicinare la vicenda al pubblico di oggi. L'impostazione del regista Claus Guth - chiarita dalle dotte argomentazioni del drammaturgo Ronny Dietrich - ambienta Lohengrin nel turbolento 1848 (anno di composizione). Allo spostamento temporale si sovrappongono «evidenti» riferimenti all'autobiografia wagneriana.
La scena di Christian Schmidt presenta, nel corso dell'opera, immutabilmente un loggiato a tre ordini, dove spesso si posiziona il coro. Pochi elementi sul palcoscenico. Un tavolo, dove il Re Enrico consulta le carte militari e la coppia infernale Telramondo-Ortruda imbastisce l'accusa. Un pianoforte verticale (personificazione del compositore?), davanti al quale la tormentata eroina Elsa e il suo cavaliere, Lohengrin, rivelano inquietudini e sensi di colpa. Uno scranno arboreo sul quale ascende Elsa quando sogna il suo vendicatore. Il finale si svolge in un canneto con laghetto dove Elsa, fra un pediluvio e l'altro, rivolge le fatali domande sull'identità e la provenienza di Lohengrin. Non tutti i simboli sono chiari: a chi mai apparterrà la bara che passa sotto la loggia all'inizio del primo atto? Allo scomparso duca di Brabante, Goffredo? Forse, ma questi - lo riconosciamo alla fine - è un ragazzetto che si aggira per il palcoscenico a piedi nudi, in gilet e pantaloni, ostentando un braccio piumato (questo è quanto sopravvive del cigno prescritto dalla tradizione).
Lohengrin secondo Guth è un uomo smarrito, traumatizzato. Però se non avessimo letto le note del drammaturgo non avremmo capito - colpa nostra - che l'onirica regia si ispira al caso di un bimbo che scosse la Germania del primo Ottocento. Kaspar Hauser, questo il suo nome, comparve dal nulla, e mai si seppe donde venisse. Educato da un grande uomo di cultura, Anselm Feuerbach, venne ucciso nel fiore degli anni in circostanze misteriose. Wagner sosteneva di averlo visto in gioventù. Il collegamento con il mito dell'ignoto cavaliere del Graal è seducente, ma chi non conosce la fosca storia di Hauser (o non legge il programma di sala) dubito reputi «evidenti» questi riferimenti. Non manca l'inquadramento socio-politico: alle nozze il coro si presenta in tuba e frac, come da copione, per i capitalisti azzimati a festa. Il tema dello scontro fra la religione cristiana e gli antichi Dèi pagani di cui Ortruda è adepta, viene sostituito dai numerosi riferimenti all'inconscio freudiano.
Voltiamo pagina, e parliamo di musica e canto. Jonas Kaufmann (Lohengrin) ci ha confermato la sua attuale unicità nel campo tenorile, dando rilievo e credibilità alla non certo facile impostazione della regia. Di più. Ha offerto meravigliosi momenti in cui recitazione e canto si esaltavano reciprocamente. Quando c'è lui in scena tutto lievita. In altro registro lo stesso può dirsi del basso René Pape (Re Enrico). Anche lui personalità unica. Modesta la prova del baritono Tomas Tomasson, nel pur decisivo ruolo di Telramondo. La bella presenza scenica di Zelijko Lucic (Araldo) non è completata dall'occorrente squillo vocale che il ruolo prescrive. Plauso particolare al soprano Annette Dasch che, chiamata per un pronto soccorso (ammalate sia il soprano titolare sia la sua sostituta) si è inserita con una prestazione vocale degna di encomio. La vera vincitrice nel dramma, Ortruda, aveva la voce vibrante e la grinta di Evelyn Herlitzius, cui va un plauso particolare per aver affrontato una delle parti più scomode e impervie dell'intero repertorio wagneriano. Il coro che nel Lohengrin è co-protagonista, sottoposto com'è a mutamenti espressivi e ritmici difficili, si è confermato, sotto la guida di Bruno Casoni, punto di forza del teatro milanese. Una sentita menzione alla sezione delle trombe, sulla scena e fuori, che accompagnano gli stentorei editti dell'Araldo.
Grazie alla decodificazione della cervellotica chiave registica (fischiata) abbiamo compreso lo spettacolo, cui vanno tutti i consensi per la tenuta complessiva. Il pubblico, infatti, applaude per 15 minuti.
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