"Torno a Ulisse e ai miti perché letteratura fa rima con avventura"

Il poeta e scrittore nel nuovo libro dà voce al mare e alle sue infinite storie di viaggio

"Torno a Ulisse e ai miti perché letteratura fa rima con avventura"

La storia della letteratura occidentale nasce tra il nono e l'undicesimo capitolo dell'Odissea. È tutto lì, nel ritmo di Ulisse che narra le proprie avventure ai Feaci persuadendoli ad aiutarlo nell'impresa del ritorno , nell'eroe che si inchina e presta ascolto ai morti. Avventura e sortilegio, invenzione e profezia, parola che trama inganni (e se Ulisse fosse un estroso mentitore?) e verbo che penetra tra le ombre, scuce confessioni: lo scrittore è cantastorie e sciamano allo stesso tempo.

A questa dimensione, sconfessata dalla narrativa recente, patologicamente impaurita dagli spazi vasti, dalle furibonde lotte dello spirito, oceaniche, rimanda il nuovo libro di Roberto Mussapi, La voce del mare. Storie di viaggi, isole e naufragi (Marietti 1820, pagg. 120, euro 17), che si basa su questo assunto: «Memoria dell'avventura significa sopravvivenza dello stupore, da cui ha origine l'immaginazione... La storia dell'uomo che dopo mille prodigi scopre che il vero miracolo è il ritorno. Perché solo il ritorno consente racconto, memoria, narrazione».

Il libro, meridiano, con un'estate confitta nel petto, allinea figure care al Mussapi poeta: la tomba del tuffatore di Paestum, Moby Dick, «l'unico libro sacro scritto in Occidente dopo la Divina Commedia», le Metamorfosi di Ovidio, Robert Louis Stevenson, La ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge, La tempesta di Shakespeare... Il capitolo dedicato all'Onnipotenza del pirata va letto tenendo sul desco Terra e mare di Carl Schmitt. Insomma, in un tempo di bassi istinti, Mussapi rilancia un'idea di letteratura omerica, salvifica, audace; che predilige il naufragio e il rischio all'acquiescenza, alla quotidianità imposta, l'isola rispetto alla metropoli, l'isolamento più che l'obbedienza alla massa, il viaggio reale, mentale, spirituale sopra la stasi, la pubblicità, la statistica delle gite turistiche. Ci vuole coraggio, già.

Tento una sintesi. Viaggi, isole, naufragi. Pare l'abbrivio di un canone del rischio, dell'avventura, al posto della triade (che va per la maggiore) Indolenza, metropoli, impegno sociale. È così?

«Coglie nel segno delle mie intenzioni. La mia triade vanifica quella dominante: per me la letteratura è rischio, avventura. Non è avventura quella del navigatore solitario, o del free climber; avventura è vivere ad alta temperatura. Indolenza, realtà sempre più quotidiana, soprattutto in un numero crescente di giovani (quelli del divano e del televisore, ma non solo loro), non è una sfortunata evenienza».

Scrivendo di Moby Dick accenna alla letteratura come «ricerca del sacro... incontro con il suo orrore e la sua luce». Sembra se non in aspetti deteriori che il sacro sia scomparso dalla ricerca letteraria, probabilmente dalla vita quotidiana. Lei, dove lo rintraccia?

«Nell'opera di poeti che manifestano una visione spiritualmente forte, che non ha necessaria relazione con confessioni religiose: Mario Luzi, Yves Bonnefoy, Derek Walcott. Fino a vent'anni fa lo trovavo nel rock, quello vero, quello che, come dice Wim Wenders, salva la vita. Intendo David Bowie, Neil Young, Neil Diamond, Van Morrison, Melanie, e la disperata, straziante Janis Joplin... E poi il teatro: chi resiste a fare teatro crede stoicamente nel rito, nel sogno, nel dialogo tra una voce e una comunità. In generale, sento che il senso del sacro non muore mai».

Nel suo libro, sembra che il mare sia metafora della pagina: può dare la vita e toglierla, è l'attimo dell'arrembaggio e quello della calma piatta, cela continenti immaginari, immaginati, e mostri letali. Eppure, come dire, la nostra pare più che altro letteratura di terra, di città: come mai?

«Io vedo nel mare il luogo dell'origine (tale è in quasi tutte le religioni). Una tradizione non solo mitologica ma anche letteraria riconosce lì il regno del mistero, i segreti dell'abisso: le sirene da cui deve guardarsi Ulisse, per non cadere nel loro incanto ammaliante e paralizzante, così diverse dalle sirene che Platone incontra in sogno, voci celestiali seconde solo alle muse (infatti, le incontra in cielo, non certo in mare). Il mare non è solo custode di misteri pericolosi, ma di un mistero spesso legato alla rinascita, a una trasformazione in qualcosa di nuovo e strano, come canta Ariel, demone dei venti, al giovane Ferdinando, naufrago, all'inizio della Tempesta di Shakespeare. Il fondo del mare, come la sua superficie, sono il regno del mistero: chi vi si avventura, chi salpa per mare, è attratto da quel mistero inconsciamente, come Ismaele in Moby Dick, ma a livello conscio non cerca il mare, anela a un'altra terra, una riva oltre il mare: cerca un tesoro, un mondo sconosciuto, qualcosa. Il mare è la dimensione necessaria a chi vuole vivere spiritualmente sulla terra.

I libri di cui racconta l'Odissea, L'isola del tesoro, La ballata del vecchio marinaio... sono i puntelli su cui ha orientato la ricerca poetica: che cosa la ha portata a percorrere le vie del mito, della poesia, spesso, di autori inglesi?

«L'incanto non separato dalla realtà concreta, storica, ma capace di traversarla e proiettarla in un sogno visibile, capace di creare conoscenza. Visione. Come lei specifica, sono molto presenti, ma non esclusivamente, autori di lingua inglese. Intanto perché la letteratura di mare, nata con l'Odissea, risorge in Inghilterra con Defoe, Stevenson, poi Conrad, e continua, in lingua inglese, con Melville».

Qual è il libro per il viaggio, l'isola, il naufragio, quello che è le più caro, imperituro, costantemente sfogliato? E poi, rovistando tra i suoi versi, mi accenni al distico che ancora la illumina, la convince.

«Il libro di

sempre è L'isola del tesoro. Il distico è questo: A te, lontano da lei, manca una donna,/ a me, se lei non c'è, manca me stesso, tratto da La risposta del poeta ad Harun al Rashid, poesia raccolta in La polvere e il fuoco».

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