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Stupri, torture e cannibalismo: la vera storia di Dahmer

In cima alla top ten di Netflix, fa disture la serie di Ryan Murphy che rievoca gli omicidi di Jeffrey Dahmer che hanno sconvolto l'America a inizio anni '90

Stupri, torture e cannibalismo: la vera storia di Dahmer

C’è una nuova serie tv su Netflix che sta facendo molto parlare di sé. È creata da Ryan Murphy, la mente che c’è dietro il franchise di American Horror Story (e di molti altri ancora), c’è un iconico Evan Peters nel cast come protagonista, e c’è l’immagine di quell’America rurale, dura e spessa ben lontana dal glamour degli anni ’80. È una serie che è vietata ai minori di 18 anni, con un disclaimer su contenuti forti come "sesso, violenza e abusi". Eppure nonostante tutto questo, Dahmer è al primo posto della classifica di Netflix, diventando di fatto la serie più vista della settimana. Disponibile dal 21 settembre, subito ha creato molto scompiglio nella comunità dei social. Non solo per la sua eccessiva violenza, ma perché Dahmer rievoca (con diverse libertà) un fatto di cronaca nera che, a inizio degli anni ‘90, ha sconvolto la comunità del Milwaukee e tutti gli Stati Uniti. Il "caro" Ryan Murphy, con il suo solito tocco da esteta, romanza la vita di Jeffrey Dahmer, il serial killer che fu responsabile di 17 omicidi.

Una serie forte, violenta, sia dal punto di vista fisico che psicologico, capace di scuotere le coscienze e di far tremare di paura anche gli stomaci più forti. Una storia vera, troppo vera, che ancora oggi fa discutere l’opinione pubblica. Dahmer, però, non è solo la fotografia di un sadico serial killer, ma racconta anche le motivazioni che hanno spinto il ragazzo a compiere gli omicidi e, nello stesso tempo, si focalizza sulla noncuranza della polizia verso le vittime, più spesso vessate dalla stampa solo perché di colore e omosessuali. È una serie tv che vale la pena di essere vista? Sì, ma con parsimonia. Di certo non è adatta per un binge watching.

Ossa e cadaveri nel congelatore, la storia di Dahmer

È un uomo che vive nell’ombra, in un appartamento fetido e in quartiere malfamato. La vita di Dahmer (Evan Peters) è vuota, inutile e spenta. Fuma e beve tutto il giorno, e di notte cerca di circuire (con alcol e droghe) giovani ragazzi, preferibilmente di colore, per compiere il suo rito macabro. Succede che uno di questi giovani, con un po' di fortuna, riesce a fuggire dal suo aguzzino e a denunciare Dahmer alla polizia. Ciò che trovano gli agenti sulla scena del crimine è raccapricciante. C’è del sangue secco sul letto, resti umani nel congelatore e ossa in avanzato stato di decomposizione. Oltre ad alcune Polaroid in cui le vittime sono state fotografate prima e dopo le violenze. Così il Milwaukee scopre la storia del silenzioso Jeffery che per anni, dal 1978 al 1991, ha ucciso ben 17 persone dopo ore di violenze e di vessazioni. L’America resta terrorizzata da quell’uomo dai capelli biondi e dallo sguardo spento che per troppo tempo ha agito indisturbato. La serie comincia la narrazione con l’arresto del killer, proseguendo poi nella discesa negli Inferi e nella mente di uomo capace di indicibili crudeltà solo per saziare una voglia e un desiderio di possesso.

Un Evan Peters da "brivido"

La storia vera che diventa fiction. Questa è la formula alla base di Dahmer. Ryan Murphy, abile narratore televisivo, non ha fatto altro che prendere la cronaca e "abbellirla" con tutti i meccanismi di una serie tv. Non prende le parti di nessuno. Né delle vittime né del serial killer. Non fa altro che raccontare i fatti così come sono accaduti, senza lesinare nei dettagli. In questo gioco ha trovato in Evan Peters un attore capace di entrare nel ruolo. Già conosciuto agli amanti delle serie tv, il buon Peters non è la prima volta che appare in progetto di Ryan Murphy e, soprattutto, non è la prima volta che interpreta personaggi criptici e scomodi. Volto noto di American Horror Story – ha preso parte a molte stagioni in ruoli sempre diversi – in Dahmer appare al meglio delle sue forze, portando in tv un personaggio complesso e che incute timore. Peters è gelido, è tenebroso, è sarcastico, è cupo, è diabolico. È un vero mostro di cattiveria e, di fatto, interpreta forse il suo ruolo migliore. Fino a ora.

Una serie (troppo) violenta

Non è facile raccontare la vita e la genesi di un serial killer. Jeffrey Dahmer è stato un mostro, sotto tutti i punti di vista. Ha ucciso per un’esigenza, e lo ha fatto con efferatezza, arrivando a violentare le sue vittime e, persino, a mangiare parti del loro corpo. Non c’è redenzione per un uomo come lui. E, nonostante tutto, non c’era strada diversa per raccontare la storia di Dahmer. Sì, la serie è violenta. Anche troppo per i canoni a cui siamo abituati ma non si poteva fare altrimenti. E le critiche arrivano proprio dai più conservatori e dal pubblico dei social che hanno bollato come "violenta e diseducativa" la nuova opera molto pop di Ryan Murphy. Sì, c’è la violenza ma non è mai gratuita. È costruita per stupire il pubblico, ma dietro le uccisioni e la ricostruzione delle indagini c’è un mondo tutto da scoprire. Non è solo la "celebrazione" del male. Dahmer rivolge anche uno sguardo – disamorato – alla realtà sociale dell’epoca, costellata di luoghi comuni e di scarso interesse per la gente di colore e i meno abbietti.

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Perché vedere Dahmer

Di sicuro è una serie per gli stomaci forti. Piace perché, come un documentario, si raccontano gli omicidi ma anche l’uomo che c’è dietro il serial killer. Convince per una narrazione incisiva, per un’ottima ricostruzione degli usi e costumi dell’epoca, e piace perché Evan Peters regala alla storia un tocco di veridicità che fa (letteralmente) accapponare alla pelle. Da vedere anche solo per perdersi in una storia crime cupa e tetra, e per vedere fin dove si spinge la mano di Ryan Murphy.

La storia dietro la fiction. Chi era Jeffrey Dahmer?

La serie tv non differisce più di tanto da quello che è accaduto nella realtà, tra gli anni ’70 e ’80. Dahmer è conosciuto per essere il mostro di Milwaukee e, secondo le autorità, è stato accusato e poi condannato per 17 omicidi. Ha usato metodi molto efferati e cruenti, contemplando la violenza sessuale, la necrofila, il cannibalismo e lo squartamento. Finito subito in prigione nel 1992, è stato condannato all’ergastolo. Non ha scontato la sua pena perché, due anni dopo, è stato ucciso dal Christopher Scarver, un detenuto che soffriva di schizofrenia. Il primo omicidio risale all’età di 19 anni quando ha ucciso un giovane autostoppista, e dopo un periodo di silenzio, è nel 1987 che è tornato a saziare la sua sete di sangue. Si fingeva un fotografo e seduceva le sue vittime con droga e alcol. Erano tutte giovani le persone che ha ucciso. Tutti gay o bisessuali. Gli omicidi furono così cruenti tanto da diventare il killer più tristemente celebre di tutta l’America.

I familiari delle vittime contro la serie di Netflix

La serie è un vero successo di pubblico ma non è stata ben vista dai parenti delle vittime che, come riporta Wired, si sarebbero scagliati aspramente nei riguardi della nuova produzione di Ryan Murphy.

In molti hanno affermato di sentirsi nauseati dalla serie tv perché il regista ha regalato "una visione troppo romanzata della vicenda, estetizzando la figura di un assassino seriale". Eric Perry, ad esempio, il cugino di una delle vittime, afferma che "non c’era bisogno di rinvangare un trama e che non c’era bisogno di una serie tv per raccontare la vita di un serial killer".

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