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Jurgen Klopp, dalla Foresta Nera ad un'altra finale con il Liverpool

Appena seduto sulla panchina del Liverpool disse: "Non siamo ancora i migliori del mondo, ma vogliamo diventarlo"

Jurgen Klopp proverà a vincere la seconda Champions con il Liverpool
Jurgen Klopp proverà a vincere la seconda Champions con il Liverpool

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Dalla Foresta Nera a un’altra finale: Klopp, la normalità è straordinaria

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Da Glatten a Liverpool fanno circa 1231 km. La distanza maggiore però abita altrove. Un villaggio tedesco di duemila anime: l’uomo che sta guadagnando la sedia davanti a mezza tonnellata di flash è partito da qui.

In quell’ottobre di sette anni fa c’era probabilmente qualche capello in più, gli occhiali solcavano placidi la punta del naso e il sorriso, quello, era praticamente lo stesso. Jürgen Klopp sembrava ancora un promettente manager che aveva fatto intravedere baluginii incerti al Mainz e scampoli formidabili al Dortmund, dove aveva incassato un titolo e una finale di Champions, poi persa contro il Bayern.

Anfield però è un’altra cosa. Lui dimostra di averlo già intuito nel momento stesso in cui si appollaia al tavolo imbandito di microfoni per la conferenza di presentazione. Prima sfodera trentadue denti color avorio, poi scarica subito a terra la presa dello stress: “Sono solo un tizio della Foresta Nera, mia madre è molto contenta che io sia venuto a lavorare qui”. Touché. Un bagno tiepido in una pozza di umiltà che si completa quando fa sapere a tutti di essere un Normal One, in contrapposizione a Mou. Gli scribi sparpagliati davanti a lui ingurgitano avidamente. Poi però arriva il contropiede: “In questo momento non siamo la squadra migliore del mondo, ma vogliamo esserlo in futuro”. E non finisce qui: “Per favore, dateci tempo. Appena mi sono seduto ho capito che potremmo vincere il titolo entro quattro anni. Altrimenti andrò ad allenare in Svizzera”. La stampa è stranita. Questo Klopp è dimesso o sfrontato? Prima quasi sussurra, poi gonfia il petto con aria garrula. Chi lo decodifica è bravo.

Sette anni dopo mamma Elizabeth sarebbe tremendamente orgogliosa di lui. L’ha lasciato un anno fa, ma ha fatto comunque in tempo a commuoversi a getto continuo, in questi anni lungo il fiume Mersey. Oggi c’è qualche capello in meno, d’accordo. Anche gli occhiali spessi che gli incorniciavano il viso sono un ricordo: un bel laser e tanti saluti. In mezzo però Jürgen ci ha premuto tante cose. Una Champions, un titolo riportato a casa dopo un’attesa lunga trent’anni e quel mondiale per club che adesso sì, lo certifica: ecco la squadra migliore del mondo. Poi ci sono i traguardi soltanto lambiti: un’altra finale persa contro Il Real a causa dei burrosi riflessi di Karius e del cinismo di Sergio Ramos. Un altro titolo sfiorato facendo 97 punti che ancora incide l’aria di blasfemia.

Oltre i risultati, però, c’è di più. Perché Klopp, in sette anni, è riuscito a rivitalizzare un ambiente depresso e sfinito dall’insuccesso cronico. L’ha fatto in molti modi. A colpi di risate e anche con quelle battute difficili da decifrare com un destro a effetto, infondendo stille di serenità. Con un gioco intenso e emotivo, che non mette certo al bando la tattica, ma trasuda rock da ogni poro. Ha fatto crescere potenziali campioni e migliorato quasi chiunque gli sia passato per le mani. Citofonare a Andy Robertson per saperne di più: uno che nel 2012 twittava “La vita fa schifo senza soldi, ho bisogno di un lavoro” e che oggi è il terzino titolare.

Adesso lo attende un altro giro di boa. Un’altra finale, ancora contro il Real, magari per ottenere indietro quel che la Dea del pallone gli ha borseggiato quattro anni fa. Comunque vada, evitare si provare empatia per lui è una missione degna della migliore versione di James Bond. Dalla Foresta Nera ad un’altra finale la strada è sempre parecchia.

Lui però se la berrà tutta con un sorriso.

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