Nome ordinario, Enrico. Nome straordinario, Ricky. Inevitabile che Albertosi nella storia del calcio entrasse volando sulle cinque lettere di r-i-c-k-y; roba da supereroe, con quella «k» e quella «y» che paiono la stilizzazione grafica di un portiere in volo all'incrocio dei pali e in uscita bassa sui piedi dell'attaccante.
Ricky, nome breve. Come Dino (Zoff), Lido (Vieri), Sepp (Maier), Lev (Yashin). Portieri da urlo: il grido del gol che si strozza in gola nell'istante del miracolo.
Nato a Pontremoli (Massa Carrara), Albertosi compirà 80 anni il 2 novembre: «Sono nato nel giorno dei morti, ma mi sento vivo più che mai». Anche quella carogna di infarto che tentò di fargli gol nel 2004 dovette rassegnarsi a tornare negli spogliatoi con la coda tra le gambe, sconfitto dal fisico temprato inox di Ricky.
Giovane guascone, arrivò dallo Spezia alla Fiorentina per soffiare il posto a Giuliano Sarti, allora numero uno della Nazionale: «In Viola, all'inizio, partii in panchina. Sarti è stato un maestro che ho superato. Dai e dai il titolare diventai io. Credo che in cuor suo Sarti abbia sempre pensato che sarebbe finita così...».
Ricky parla gonfiando il petto, senza abbassare gli occhi davanti a nessuno. Per molti è stato il portiere italiano più forte di ogni tempo, ma Nereo Rocco, suo storico allenatore al Milan, andava oltre: «Albertosi è il miglior portiere del mondo...», aggiungendo beffardo, «... me lo tengo stretto anche se ha tutto quello che non posso sopportare in un calciatore professionista: beve, fuma, fa tardi la sera, è pieno di donne e scommette ai cavalli».
Un cocktail shakerato a base di erbe dolci e amare che hanno ispirato le pagine inebrianti di Ricky Albertosi, romanzo popolare di un portiere, (Urbone Publishing), libro curato da Massimiliano Castellani del Collettivo Soriano tra le cui fila milita pure Lamberto Boranga, altro highlander della porta che ha avuto la ventura di incrociare i suoi guanti con quelli di Ricky (che però spesso preferiva giocare a mani nude). Dieci dita libere da coperture che sono la metafora di un uomo mai ingabbiato dell'ipocrisia. Perfino quando, «ingabbiato», lo è stato davvero, finendo nel 1980 a Regina Coeli dopo essere precipitato nel pozzo nero del calcioscommesse.
«Maledetto quel Lazio-Milan - racconta Albertosi al Giornale - Mi misero in mezzo per una telefonata ricevuta da quelli della Lazio di cui mi feci portavoce, ingenuamente, col mio presidente. L'ipotetico accordo prevedeva - in cambio di 80 milioni, poi scesi a 20 - la vittoria del Milan all'Olimpico. Tutti sapevano. Ma io ero il perfetto capro espiatorio. Il mondo mi crollò addosso. E saltò pure il contratto con i Cosmos dove avrei dovuto chiudere la carriera insieme ad altri campioni ingaggiati per esportare il soccer negli Usa».
Un duro, il Ricky. Carismatico. Mai ruffiano. Pane al pane, vino al vino. E whisky al whisky. «Estremo difensore», anche di se stesso: «Se in partita commettevo un errore, non lo ammettevo subito, preferivo dare la colpa al difensore...»; o al «pallone troppo leggero», come in quel maledetto Milan-Porto del '79 che eliminò dalla Coppa dei Campioni i rossoneri messi in ginocchio da una punizione (ora, dopo 40 anni, può ammetterlo perfino Ricky: «Tutt'altro che imparabile») calciato dal piede velenoso di quel serpente di Duda.
Oggi Albertosi vive serenamente a Forte dei Marmi circondato da figli, nipoti e dalla Betty, la seconda moglie con la quale per anni ha gestito a Milano il ristorante Tatum: «Ma i migliori bucatini alla amatriciana della mia vita li ho mangiati in carcere, cucinati da un compagno di cella». Ricky il calcio continua a seguirlo, ma in maniera ironica, disincantata: come al tavolo del bar «Gattullo» a Milano insieme con Pizzul, Viola e Jannacci che canta Vincenzina scolando bottiglie e bruciando stecche di Marlboro: «I portieri oggi hanno numeri assurdi dietro le maglie, guadagnano milioni ma commettono gravi errori di impostazione enormi (a Donnarumma fischieranno le orecchie, ndr). Anche la storia dello stress causato dalle troppe partite, è una roba che mi fa ridere...».
Ci fu un tempo in cui Albertosi, tra i pali, oltre a dettare la legge del più forte, dettava anche legge in fatto di moda: la sua maglia blu o rossa ai tempi del mitico Cagliari scudettato del '70 fece epoca. Rompendo il grigiore cromatico dei portieri in nero.
La Sardegna, un'isola circondata da un mare di ricordi. Che Ricky solca a larghe bracciate: «Il Cagliari, guidato da quel filosofo che era Manlio Scopigno. Eravamo in ritiro. Ogni notte giocavamo a poker. Nella stanza la visibilità era azzerata dalle sigarette. Il mister bussò alla porta, si affacciò sull'uscio e, tra la nebbia impenetrabile delle Marlboro, chiese educatamente: Scusate, disturbo se fumo?. Grandioso».
Il 1970, anno memorabile per Ricky, la data leggendaria della «partita del secolo» in Messico: «Posso dire di fare parte di quel 4 a 3 contro la Germania entrato ormai nella leggenda dell'Italia». Era il suo terzo Mondiale. Con Pelè che alla fine della sfortunata finale col Brasile gli disse scherzando: «Ricky, è inutile che ti impegni, ti farei gol anche in amichevole...».
Poi per Albertosi ci fu anche il quarto mondiale del '74 in Germania. E ce ne sarebbe stato, nel '78, perfino un quinto se il destino fosse stato meno cinico (o almeno un po' meno baro): «Bearzot mi aveva assicurato che avrei fatto parte della spedizione in Argentina, ma alla vigilia della partenza il mister mi chiamò dicendomi che Zoff con me in panchina non si sentiva tranquillo. E quindi era meglio se fossi rimasto a casa». Un tradimento che incrinò l'amicizia con Dino. Grande delusione, compensata nel '79 dallo scudetto della Stella conquistato con una sgargiante maglia gialla.
Una rivalità, quella tra il metallico Zoff e il plastico Albertosi - che ha segnato pagine avvincenti nell'epopea di un ruolo riservato solo a quegli uomini speciali che sono i portieri. Dino e Ricky restano convinti di essere l'uno più forte dell'altro. In realtà è un match pari, come quello sul campo artistico tra Michelangelo Buonarroti e Michelangelo Merisi, ma loro - pur sapendolo - non lo ammetteranno mai. Da una parte Dino il freddo, tanto da risultare quasi glaciale; dall'altra Ricky il caldo, ai limiti della scottatura. Zoff il regolare, Albertosi l'irregolare che accetta perfino di chiudere la carriera nell'Elpidiense, in serie C. Con la gioia però di mietere ammirazione perfino sui campi dove la puzza della polvere annichilisce il profumo dell'erba.
Ma per uno come Ricky anche quei terreni spelacchiati sapevano di poesia. Fino all'ultima partita: «L'amico Beppe Viola, da lassù, sono sicuro che ha condiviso la mia scelta».Perché i «romanzi popolari» più belli si consumano sempre davanti a una porta. Sormontata da una traversa.
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