Cultura e Spettacoli

Stevenson offrì al papà di Pinocchio un caffè

I due autori si incrociano per caso nella Ville Lumière E per timidezza si nascondono dietro a qualche menzogna. Appena Robert sfogliò il libro sul burattino: "Andrò a trovare il suo creatore". Si scambiarono i biglietti ferroviari e poi scoppiarono in una gran risata

Stevenson offrì al papà di Pinocchio un caffè

Non si sa se fu nel 1884 o nel 1885. Quello che si sa con certezza è che il grande scrittore scozzese Robert Louis Stevenson si trovò un giorno - sembra a casa di un amico - a tenere per le mani un libro appena tradotto, opera di uno sconosciuto scrittore fiorentino di nome Carlo Collodi.

Il romanzo raccontava le avventure di uno strano burattino che parlava, camminava, correva senza nessun bisogno di fili. C’erano molte contraddizioni in quel libro, ma Stevenson, che non era uno stupido, comprese di trovarsi di fronte a un capolavoro pari se non superiore a quello che recentemente aveva dato la fama a lui: L’isola del tesoro.

«È curioso» disse all’amico, senza mostrare la minima invidia.

«Sembra che questo Mr. Collodi abbia scritto il suo libro suppergiù mentre io scrivevo il mio».

L’amico sollevò il suo whisky.

«L’evento è degno di un brindisi, suppongo».

Stevenson posò il suo bicchiere sul tavolino e si alzò in piedi.

«No. L’evento è degno di un incontro. Voglio conoscere questo Mr. Collodi».

*** *** ***

In quello stesso momento, presso la casa di una vecchia zia, lo scrittore fiorentino Carlo Lorenzini detto «Il Collodi» si godeva alcune giornate di riposo in campagna. Era un marzo secco e limpido. Tutte le mattine di buon’ora Lorenzini spalancava le finestre della sua stanza e si godeva quel paesaggio: colline verdissime popolate di ulivi, cipressi e piante di vite, disseminate di case e poderi. Una casa che biancheggiava in lontananza, immersa nei castagni, aveva ispirato una famosa pagina del libro che gli aveva dato una inaspettata notorietà.

A Carlo Lorenzini non importava affatto di essere un grande scrittore. E non capiva come mai quel suo libro sul burattino Pinocchio avesse avuto tanto successo. Un’esagerazione. Un amico aveva tradotto per lui un libro per ragazzi da non molto uscito in lingua inglese: L’isola del tesoro. Quello sì era un bel libro! Che scrittore! Una trama così ben congegnata, lo stile perfetto, i particolari ben curati, e poi questa capacità - che lui non possedeva - di intrecciare storie diverse. E i paesaggi!

Come gli sarebbe piaciuto fare la conoscenza di questo portentoso signor Stevenson!

*** *** ***

Stevenson aveva deciso di trattenersi qualche giorno a Parigi, che non amava. Era per la mania della società. La cultura francese aveva il pallino della società, i politici volevano riedificare la società, tenerla sotto controllo. Anche questo signore indubbiamente capace, il barone Haussmann, aveva fatto mettere sottosopra tutta la città, spazzando via i quartieri poveri, pieni di potenziali ribelli.

La stessa letteratura francese, che noia. A parte Maupassant, era tutto un inno alla società, al realismo, sempre realismo, come se bastasse il realismo per capire la natura dell’uomo, così piena di paure, di sogni, di pensieri inconfessati. Uno crede di essere una brava persona e invece è un mostro: colpa della società, dicono i francesi. Bazzecole.

A dispetto di questi pensieri, Parigi risultò particolarmente benigna con lui. Erano giorni tiepidi, appena velati. Era piacevole camminare lungo il fiume o ai Tuileries o sedere al tavolo di qualche caffè e leggere i giornali.

Si trovava a uno di questi tavoli quando la sua attenzione fu attratta da un altro cliente, poco distante da lui, che appariva molto irrequieto e spaesato. Parlava un francese pessimo e abbastanza ridicolo ma comunque comprensibile, ma il cameriere fingeva di non capire.

Nemmeno Stevenson parlava bene il francese, però era elegante, e questo persuadeva i camerieri a dargli retta.

«Posso fare qualcosa per lei?» chiese piegandosi allo sconosciuto, col proprio francese elementare, che quello intese subito.

«Pensi» rispose l’altro «che non dovevo nemmeno fermarmi a Parigi. Ma c’è stato un guasto al treno».

«Una seccatura. Posso offrirle qualcosa?».

Stevenson ordinò due caffè, poi invitò lo sconosciuto a sedere al suo tavolo.

«Italiano, si direbbe»

«Ben dedotto. E diretto in Inghilterra».

«Pensi un po’. Io vengo dall’Inghilterra e sto andando in Italia».

«Che coincidenza. E dove di preciso?».

«Firenze».

«Ma guardi che caso! Io sono di Firenze».

«E cosa fa, a Firenze?».

«Lo scrittore».

«Incredibile. Pensi che sto andando a Firenze per incontrare uno scrittore. Posso sapere il suo nome?».

«Carlo. Carlo Lorenzini».

Stevenson scoppiò a ridere.

«Pensi che stupido. In questo nostro incontro ci sono già così tante coincidenze che quando lei ha detto “Carlo”, ho creduto che lei fosse la persona che sto andando a cercare».

«Conosco tutti gli scrittori fiorentini».

«Si chiama Carlo Collodi».

Il suo interlocutore inghiottì in silenzio.

«Lo conosce?».

«Oh sì, naturalmente. È un mio amico».

«E come sta?».

«Bene, ma il successo del suo ultimo libro lo sta tenendo troppo occupato».

«Le avventure di Pinocchio, non è così?».

«Anche lei conosce quel libro?».

«Tutti lo conoscono. È un libro straordinario»

«Mi fa molto piacere... per il mio amico Collodi, s’intende. Del resto, anche dall’Inghilterra è uscito questo libro per ragazzi formidabile... L’isola del tesoro».

«Lo conosce? Non mi risulta che sia stato ancora tradotto da voi».

«L’ha fatto tradurre giusto il mio amico Collodi, per uso personale. E ha avuto la bontà di prestarlo al sottoscritto. Vorrebbe tanto conoscere l’autore, sembra che stia a Londra...».

«No, in questo momento non è a Londra, è a... e chi lo sa!».

«Perché, lei lo conosce?».

«Altroché, siamo grandi amici!».

«Io e Collodi abbiamo parlato a lungo del libro del suo amico».

«Sapesse quante volte io e Stevenson abbiamo parlato di Pinocchio!».

Cominciò così tra i due scrittori in incognito una fitta conversazione, di cui possiamo offrire qui in esclusiva per i lettori del Giornale alcuni passaggi fondamentali.

*** *** ***

Presentatosi col nome di Florizel, Stevenson cominciò lodando grandemente il libro di Collodi.

«Robert è rimasto a bocca aperta davanti a tanta poesia, a una capacità evocativa così acuta, a immagini di personaggi così ben definite. Ha molto riflettuto su cosa significhi raccontare storie per ragazzi. I ragazzi sono persone semplici, dirette, alle quali non si addicono troppi discorsi. Scrivere per loro significa coltivare gli uomini che saranno, un giorno. E un uomo, per essere un uomo, non ha bisogno soltanto di cibo, denaro e altre cose simili...».

«Sono d’accordissimo... ehm... e Collodi lo sarebbe quanto me».

«Ha bisogno soprattutto di usare l’immaginazione. Molti sostengono che la fantasia va bene solo finché si è ragazzi, e che passata una certa età quello che era un segno d’intelligenza si trasforma in un segno di cattiva volontà e poca disposizione alle responsabilità della vita. Robert ha scontato a lungo queste idee, e se ne è disfatto con grande fatica».

«Su questo punto però mi permetta di dissentire. Noi adoperiamo lo strumento della fantasia per parlare ai ragazzi proprio perché sono ragazzi. L’importante è che, nella fantasia, resti chiaro l’insegnamento morale, che poi il ragazzo, crescendo, terrà per buono anche quando tutti quei personaggi di fantasia avranno perduto il loro fascino ai suoi occhi».

«Lei pensa questo?» domandò Stevenson, sbalordito.

«Lo penso io e lo pensa anche Collodi. Quel che conta è la morale. Il fatto è che i giovani non sono più quelli di una volta. Smaniano, non vogliono più ascoltare lezioni. Si figuri che Collodi, fosse stato per lui, avrebbe fatto morire Pinocchio impiccato alla Quercia Grande».

«Io non posso crederlo» ripeteva Stevenson, scuotendo la testa.

«Ma certo. Così la morale sarebbe risultata chiara: ecco quello che succede quando i ragazzi disobbediscono ai loro genitori».

«Povero me. E poi perché ha continuato?».

«I lettori! Guai a te se lo fai morire. Il povero Collodi è stato perfino minacciato di morte».

«Io quei lettori li capisco perfettamente, caro Lorenzini. Che senso avrebbe avuto inventare un burattino come Pinocchio? Non sarebbe stato sufficiente un ragazzo qualunque?».

«Su questo può avere ragione. Ma sa, da noi i ragazzi quando saltano la scuola perlopiù corrono dietro ai teatrini ambulanti perché c’è sempre qualche caramella da rimediare, o qualche soldino. L’idea è nata così».

«Io non posso crederlo. Ma quello è un burattino fatto con un legno che parla e ride. Una cosa straordinaria. Una delle più grandi idee che uno scrittore abbia mai avuto! E Mr. Collodi voleva sprecarla per insegnare ai bimbi a ubbidire ai genitori?».

«Non mi dica, signor Florizel, che lei è per la ribellione e contro i buoni costumi».

«Ma che dice! Io sono contro la cattiva letteratura. Senza la rivolta dei lettori Mr. Collodi avrebbe distrutto quell’idea grandiosa. Benedetti per sempre quei lettori ribelli!».

«Un momento. Ma al signor Stevenson cos’è piaciuto di Pinocchio?».

«Tutto».

«Ma in particolare?».

«La forza evocativa. L’Osteria del Gambero Rosso, la cena all’osteria, l’inseguimento notturno, il Gatto e la Volpe, il ventre del Pesce-Cane, la casa nella campagna. Questo è il romanzo: la forza dell’evocazione. Esistono situazioni letterarie e situazioni che non lo sono. Camminare di notte lungo la riva tempestosa del mare. Ascoltare la voce di un vecchio marinaio con i suoi racconti strampalati. Dica a Collodi che amo follemente la sua bambina dai capelli turchini: peccato che poi sia diventata una fata».

«Anche a lui dispiace un po’. Se non l’avessero obbligato a continuare il libro sarebbe rimasta una bambina morta, come ce n’è tante nelle nostre campagne, perché da noi la gente è povera, sa, e capita spesso che una febbre, un mal di gola, un fastidio nella respirazione portino via, specie d’inverno, tanti bambini piccoli. Tante mamme dicono, poi, di avere ricevuto la visita dei loro bambini morti, di avergli parlato. Dicono che quando succede si annuncia una fortuna oppure una disgrazia».

«Interessante. E lei ci crede?»

«No».

«E Mr. Collodi?».

«Nemmeno. Il personaggio che lui preferisce di tutto Pinocchio è il Grillo-Parlante».

«Il grillo? Ah ah ah! Ma se è il più antipatico!».

«Mi scusi, ma il signor Stevenson, che ha scritto quel gran libro, che personaggi preferisce?».

«Ma Long John, è evidente! Lo capirebbe anche un asino».

«Il pirata? Il criminale?».

«Certamente. Proprio per la sua lontananza da ogni virtù. La distanza tra il lettore e un personaggio così può essere riempita solo dalla fantasia. Eppure mi creda, Mr. Lorenzini. In fondo i due libri si somigliano più di quanto crediamo. Da tutte e due le parti ci sono un bambino, un’avventura, dei sogni, dei personaggi insidiosi, e poi c’è il Male. Sia Pinocchio che il piccolo Jim cercano qualcosa, e questo qualcosa in tutti e due i casi ha a che fare con la ricchezza: il tesoro di Jim, il campo dei miracoli di Pinocchio, con gli alberi carichi di monete d’oro. E tutti e due comprenderanno che il vero tesoro non è quello».

«Con la differenza che Pinocchio scappa perché è cattivo, mentre Jim scappa perché la sua casa non esiste più».

«Dev’essere la differenza tra i nostri due popoli, che ne pensa?».

«Non arrivo a pensare così in alto».

«Jim fugge dalla sua locanda per cercare il tesoro e alla fine troverà se stesso, il vero tesoro che sta alla fine dell’avventura della vita. Pinocchio fugge dai suoi doveri e alla fine troverà anche lui se stesso, ma prima dovrà trovare suo padre. Sono due modi - uno inglese e protestante, l’altro italiano e cattolico - di raccontare la stessa storia».

Queste parole colpirono profondamente Mr. Lorenzini. I due s’incamminarono in silenzio verso Montparnasse, dove Mr. Florizel invitò il suo nuovo amico a pranzare insieme. Il treno per Calais, dove Mr. Lorenzini si sarebbe imbarcato per l’Inghilterra, sarebbe partito solo a tarda sera.

«È un momento delicato per l’Europa e per il mondo» disse improvvisamente Mr. Lorenzini, facendosi scuro in viso. «Sono nate nuove nazioni, tutto è destinato a cambiare. Ci sono state tante guerre sanguinose e ho paura che non siano finite».

«E immaginare il futuro è diventato più difficile. Per noi, che non vivremo ancora a lungo, è un problema relativo. Ma per i nostri ragazzi? Forse per questo i nostri rispettivi amici hanno scritto i loro libri. Il mondo, per Jim come per Pinocchio, non è un luogo sicuro. Forse dovremmo pregare per loro. Ma se pregare è troppo difficile, almeno possiamo raccontare storie per accompagnarli, perché non si sentano soli quando non ci saremo più, perché non smettano di cercare se stessi».

Intanto il pranzo era terminato, ed era giunto il momento di separarsi. Fatti alcuni passi fuori del restaurant i due si fermarono e si guardarono negli occhi.

«Lei dunque prosegue per Londra, Mr. Lorenzini?».

«No, credo di no. Mi sa che torno a Firenze. E lei?».

«Anche a me è passata la voglia di raggiungere l’Italia. Me ne torno nella mia brumosa Londra e poi partirò per la Scozia».

«Allora, che ne direbbe se ci scambiassimo i biglietti ferroviari?».

«Mi pare un’eccellente idea».

Dopo lo scambio, i due amici si strinsero la mano.

«Allora arrivederci prima o poi... Mr. Collodi!».

«È stato un piacere, signor Stevenson!».

E qui cominciò la loro lunghissima, magnifica risata, che nel silenzio della sera risuonò per tutta Montparnasse, tanto che più d’uno si affacciò alla finestra domandandosi chi potesse essere tanto allegro in tempi tanto difficili.

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