La storia dell’uomo che ha attraversato il «mare di sabbia»

Antonio Ruzzo

«Quando sei lì di notte, nel silenzio più assoluto ti senti in un’altra dimensione... Sei il nulla e capisci quanto la natura è più grande e più forte di te. Si, certo un po’ si ha anche paura: solo i matti non hanno mai paura...». Stefano Miglietti, 38 anni, bresciano di Gussago, tre figli e una moglie «paziente» per «matto» è stato preso fino a pochi minuti prima di partire per attraversare il grande Mare di sabbia, il deserto egiziano che nessuno ha mai avuto il coraggio di sfidare in completa autonomia.
Una «pista» maledetta che nella leggenda avrebbe inghiottito durante una tempesta di sabbia l’armata di 50mila uomini guidata da re Cambise: era il 523 a.c. Stefano su quella «rotta» c’è tornato un po’ anche per questo. Una sfida nella sfida. Cinque giorni e 23 ore per percorrere i 550 chilometri che separano l’oasi di Farafra da quella di Siwa. In mezzo il nulla. Assolutamente il nulla. «Non ci sono forme di vita - racconta Stefano -. Né acqua, né animali. Ho incontrato solo due libellule... morte». Settantaquattro chilometri di media ogni giorno tirandosi dietro un carrettino di 90 chili su cui c’era il giusto esatto per sopravvivere: acqua, cibo e un sacco a pelo. Un peso ragguardevole soprattutto nei primi giorni, reso ancora più insopportabile dalla sabbia che sprofonda e dalle dune che ogni giorno cambiano posizione ma che comunque vanno «scalate».
«I primi giorni sono stati durissimi, massacranti - racconta “rajil cra”, l’uomo che corre come l’hanno soprannominato i tuareg -. Il peso del carico mi provocava dei dolori fortissimi ai muscoli addominali. Proseguire è stato veramente complicato. Ogni volta che salivo su una duna a metà rischiavo di essere risucchiato verso il basso. Cinquanta chilometri così nella prima giornata, alla sera ero sfinito. Poi per fortuna le cose sono migliorate anche perché di giorno in giorno il carrettino si alleggeriva». Già il carretto. Tutti, ma proprio tutti, avevano detto a Stefano che attraversare il deserto con quel «trabiccolo» di alluminio che si era costruito con un suo amico riciclando un paio di ruote di mountain-bike era una follia. Glielo aveva spiegato Marco Rosa, il suo medico-allenatore. Glielo avevano ripetuto fino alla noia i tuareg che aveva conosciuto quando aveva attraversato sempre da solo il deserto del Murzuq. «Pensa che quando sono arrivato alla partenza di Farafra - ricorda Stefano - e ho tirato giù dalla jeep il carrettino i tuareg si sono messi a ridere. “Così non fai neanche tre ore di tragitto...” mi prendevano in giro. E mi hanno seguito convinti che avrei mollato subito. Erano pronti a riportarmi indietro». Invece Stefano ha tirato dritto, stringendo i denti, massaggiandosi i polpacci che diventavano di legno chilometro dopo chilometro e cercando di mandare giù il cibo che proprio non voleva scendere. «Sì, il mangiare è stato il problema più grosso e inaspettato. Per la fatica ho avuto da subito dei grandi problemi allo stomaco. In pratica riuscivo solo a deglutire e quindi me la sono cavata bevendo delle proteine sciolte nell’acqua e del latte condensato. Nei primi giorni ho bevuto moltissimo poi ho cominciato a fare economia perché avevo terrore che finissero le scorte. Sono arrivato alla fine con un litro di acqua che ho bevuto in un sorso. Mi è mancato anche un fornelletto. La sera ho sognato qualcosa di caldo. Avevo delle minestre liofilizzate e per scaldarle tenevo il pentolino con l’acqua tra le gambe chiuso nel sacco a pelo...». Caldo torrido e freddo. Nel deserto l’escursione termica è incredibile. In questa stagione si va dai trentacinque gradi del giorno allo zero notturno. «Da mezzogiorno alle tre si boccheggiava, poi il sole cominciava a scendere e bisognava coprirsi. Il vento è stata una costante ma non mi ha dato fastidio. Molto più complicata la tempesta di sabbia che ho dovuto affrontare il terz’ultimo giorno: lì me la sono vista davvero brutta...». Un momento di sconforto, la consapevolezza di essere da soli in uno spazio davvero infinito e nessuna certezza. «Sì perché quasi sempre non riesci a capire cosa ti aspetta, cosa hai davanti. Ho capito perché lo chiamano il “grande mare”. La sensazione è immediata: basta salire su una duna, ascoltare il rumore del silenzio che ti avvolge e guardare verso l’orizzonte che non finisce mai. È tutto in movimento, sembra di essere in mezzo ad un Oceano, cambiano solo i colori. Incredibile...». Ora, dopo una medaglia d’oro, consegnatagli dall’assessore allo sport della provincia di Brescia, Stefano si gode un po’ di gloria. Solo un po’, senza esagerare. Non è un «iron man», di professione fa l’imprenditore e tutto il tempo che può lo dedica alla sua famiglia: il «grande mare di sabbia» è alle spalle insomma. «Si pensavo anche io così - ammette -. Credevo che la prossima sfida sarebbe stata sui ghiacci, magari alla Yukon artic , 800 chilometri sui ghiacci canadesi...». E invece?. «E invece credo che tornerò a sfidare un deserto. Mi è rimasto nel cuore l’abbraccio dei tuareg quando sono arrivato a Siwa. Mi stavano aspettando. Ci siamo abbracciati e siamo scoppiati a piangere...

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