Cè un'espressione, al Sud d'Italia: «Canta col sole in bocca». È il punto di partenza, forse, per capire la voce e l'arte di Giuseppe di Stefano. In lui si viveva lo schiudersi della pienezza del suono che diventa parola, splendente, vittoriosa. La gioia di ascoltare e sentire che i sentimenti, le immagini, le storie, sono accesi in una specie d'epopea della passione, che esalta anche nella tristezza. La voglia di riconoscersi in un artista che aveva non nella tecnica, nella cultura, nella lunga applicazione il suo segno caratteristico, ma nella spontaneità della natura.
Di Stefano, Giuseppe e presto Pippo per tutti, diventò popolare subito dopo la guerra, apriva bocca e incantava. Aveva il dono d'un timbro pastoso, la perentorietà d'una presenza anche scenica di quelle che s'impongono prima ancora che comincino a recitare, perché si sente che son lì per catturare il nostro orecchio e la nostra fantasia, e che lo faranno immediatamente, in modo anche elementare, da predestinati. Aveva anche, nei primi anni, l'eleganza leggera della giovinezza, impersonava il tenore di grazia con qualcosa di più fondo, nella Manon di Massenet, nella Sonnambula, nell'Elisir d'Amore. A poco a poco, il temperamento siciliano focoso lo spinse verso parti più drammatiche, molte raffinatezze cedettero il posto a slanci più ardenti. Aveva qualità eccezionali nella dizione, la parola precisa, la frase esattamente segnata. C'è un disco, della serie «pirata», cioè registrato clandestinamente, in cui alla Scala è Riccardo, protagonista del Ballo in maschera verdiano diretto da Gavazzeni, con Maria Callas, Giulietta Simionato, Ettore Bastianini. Memorabile. Poi venne il tempo in cui si cominciò ad esigere la tecnica precisa e il senso dello stile. Pippo Di Stefano cantava, come si dice, «aperto», espansivo, con poche mezze tinte e con gli acuti alla maniera delle canzoni napoletane, di cui rimane uno degli interpreti leggendari. Nell'opera verista, di Mascagni o Leoncavallo, era a suo agio; nel resto continuava comunque a cantare a modo suo. Oggi facciamo un po' fatica ad accettare, ancorché con la Callas e diretto da Karajan e Serafin, i suoi dischi del Trovatore ed ancor più dei Puritani.
Era un conquistatore, in ogni caso. Simpaticissimo. E furbo. Una volta, all'Auditorium di Cagliari, lo accompagnai al pianoforte in celebri romanze. In Non ti scordar di me, dove la voce si assottiglia preziosamente sulla parola «nido» tenuta a lungo, osò un pianissimo, chiedendomi cogli occhi qualche cosa. Lo imitai, delicatamente, e mi parve di cogliere un'occhiataccia. Alla ripresa azzardai allora l'inverso, ed eseguii un tremolo in vistoso crescendo. Appena la sua voce fu coperta dal mio fracasso, lo vidi tranquillamente respirare.
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