Mario Palmaro
Che cosa hanno voluto dirci il milione di manifestanti che sabato hanno sfilato a Roma per il Family day? Se lo chiedono in tanti, preoccupati dallinusuale mobilitazione di una porzione della società. Le diagnosi si sprecano, e si sprecano pure gli atti daccusa: una manifestazione antigovernativa, una prova di forza della Chiesa, un simbolo di quel neoguelfismo rinascente e mai morto in Italia, uno schiaffo alla sinistra, e via spoliticando. Ma a noi sembra, molto più banalmente, che il popolo del Family day abbia solo voluto portare nel cuore del Paese, là dove si fanno e disfano le leggi, tre segnali forti e chiari.
Il primo: il matrimonio e la famiglia sono un bene oggettivo, patrimonio di tutti gli uomini, credenti e no. Questa manifestazione ha chiesto a gran voce la liberazione di un prigioniero politico: la laicità, per troppo tempo presa in ostaggio dal gotha degli intellettuali laicisti e dalla sinistra egemonica di stampo radicale e libertario, relegando chi non fosse daccordo nella comoda riserva indiana del cattolicesimo. Come se non esistesse un problema reale, tangibile e inevitabile: la definizione del nocciolo duro di valori, di contenuti e di beni - morali e talora anche giuridici - che sta sempre alla base di ogni esperienza politica che chiamiamo Stato di diritto. Far credere che, per essere un laico a tutto tondo, devi essere a favore dei Dico è una truffa, prima ancora che morale, intellettuale.
In secondo luogo, questa manifestazione ha spezzato quel sortilegio mediatico in base al quale - ogni volta che qualche frangia progressista entra in azione per spazzare via un pezzetto di tradizione e identità culturale - subito un sondaggio conferma che «il Paese è pronto, la maggioranza lo vuole». Dopo Roma può ripartire un confronto serio e ragionevole fra le diverse anime del Paese, che abbia il coraggio di mettere in discussione il dogma del «totalitarismo democratico»; cioè lidea per cui la democrazia sarebbe un guscio vuoto, una pura forma dove la volontà di potenza dei più decide qualsiasi contenuto della legge.
Terzo, ma non ultimo per importanza, «contenuto» del Family day: un segnale forte e chiaro che scuote la Chiesa al suo interno. Perché - vogliamo scriverlo senza imbarazzi clericali - se siamo giunti allo scontro politico culturale sui Dico è anche, o forse soprattutto, perché da anni è in atto uno scontro ben più grave e lacerante allinterno dello stesso mondo cattolico. Girando per parrocchie e per diocesi si può toccare con mano lesistenza di importanti e tuttaltro che marginali defezioni. Che non riguardano solo le associazioni storicamente legate al «cattolicesimo democratico»; non riguardano solo i soliti preti più o meno pittoreschi, in salsa no-global o catto-comunista. Il malessere sale fino alle curie episcopali, nelle quali siedono talvolta vescovi che - parlando sottovoce o tacendo - non condividono ciò che Benedetto XVI o il cardinale Bagnasco vanno insegnando, coerentemente con la dottrina millenaria della Chiesa. Sembra prendere corpo la drammatica profezia di un Papa insospettabile come Paolo VI, il quale nel 1974 preconizzò una Chiesa nella quale si sarebbe diffuso a macchia dolio «un pensiero non cattolico», capace di diventare forse maggioritario, ma che - concludeva Montini - non sarebbe mai diventato «il pensiero della Chiesa». Fra i credenti si è molto restii a scrivere queste cose, perché si teme possano suonare come un segno di debolezza, o peggio di mancanza di rispetto nei confronti della gerarchia.
Ma noi pensiamo si debba abbandonare ogni indugio, e rendersi conto che siamo giunti a un punto di svolta: cè un Papa che, nella tempesta della post modernità, lotta per tenere ben saldo il timone della barca di Pietro; ci sono vescovi, biblisti, facoltà teologiche, riviste «cattoliche» che - come una ciurma ammutinata - non vogliono più prendere ordini da lui.
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