«Il successo? Un incidente che mi fa ridere»

Porto la Trilogia della villeggiatura sul palco del Piccolo Recitare è un mestiere quotidiano

«Il successo? Un incidente che mi fa ridere»

C’è questa faccia da Totò triste che ti guarda attraverso il fumo della sigaretta e si capisce che, fosse per lui, al tema non dedicherebbe più di un avverbio o un’interiezione. Si considera un attore di successo? No. Teme il successo? No. Il successo logora chi non ce l’ha? Boh...
Solo che Toni Servillo è al Piccolo di Milano che fu di Paolo Grassi con la goldoniana Trilogia della villeggiatura che fu di Giorgio Strehler, da tre mesi è sugli schermi cinematografici come il commissario Sanzio di La ragazza del lago, caso raro di resistenza al botteghino per un film italiano e si appresta a tornarci nelle vesti del Divo politico per eccellenza, Giulio Andreotti, e nella riduzione di un best seller letterario come Gomorra... Insomma, è l’attore del momento, e cosa volete che un povero cronista gli chieda? Essendo un meridionale ben educato, lui lo sa benissimo, ne soffre ma fa egualmente uno sforzo. «Mettiamola così, è un problema che non mi riguarda e che non mi pongo. Questo perché pratico tutti i giorni il mestiere di recitare e tutti i giorni ci inciampo. Certe sere tutto funziona come per incanto, certe sere no, e quindi so cosa vuol dire uno spettacolo che riesce e la delusione se invece fallisce. Capisce che un tale stato di cose non ha niente a che fare con la vaghezza e l’inconsistenza della parola successo... Al successo sono legate connotazioni vuote, episodiche, generiche che la costanza di un impegno a teatro di 200 giorni l’anno fa sparire: io mi metto in gioco ogni sera e ogni sera me ne assumo oneri e rischi, ed è l’aspetto più esaltante del mio mestiere... Niente mi impedirebbe di vivere di rendita su cose che ho già fatto, e niente però me ne importerebbe di meno, perché è una strada bieca, perché non è la mia strada».
Servillo ha quasi cinquant’anni e chi lo conosce solo attraverso il grande schermo, per esempio il malinconico Titta Di Girolamo di Le conseguenze dell’amore, ne riceve un’immagine di vedovile eleganza, un po’ austera e un po’ funerea, dinoccolato, stempiato, più absburgico che napoletano. Lui, per la verità, è campano, di Afragola, ma qui usiamo la parte per il tutto, Napoli come simbolo e metafora. Un Totò triste, abbiamo detto all’inizio, ovvero un principe de Curtis quando non era nelle sue vesti attoriali. Nella Trilogia della villeggiatura si è ritagliato per sé la parte di Ferdinando, lo scroccone per eccellenza, e la porta in giro sul palcoscenico con l’aria e lo stile annoiato del gagà di provincia, spregevole eppure irresistibile. «Esiste una Napoli nobilissima a cui si deve guardare con ammirazione, di cui fare tesoro, ma non squallida rivendicazione. E poi c’è un modo di essere napoletani che è di maniera, ai limiti dell’onanismo, una macchietta volgare e riduttiva. Non mi piace il vittimismo, il pensare che tutto sia endemico, che non si possa cambiare niente... E però non vorrei nemmeno passare per un tribuno, per uno che dà lezioni. Io credo che ciascuno, nel suo campo, debba fare la propria parte, l’impegno culturale è anche impegno civile. Io dal Sud non me ne sono andato, vivo lì, provo lì, lavoro lì. Naturalmente non ho ricette politiche, semplicemente penso che non bisogna fare patti con la delinquenza. Tutto qui... Quanto al mio Ferdinando della Trilogia, lei ha ragione, è spregevole proprio perché è irresistibile, perché è simpatico. È il parassita all’ennesima potenza, l’uomo che vivacchia alle spalle degli altri, quello che va in prepensionamento nella vita e dalla vita. Goldoni è stato uno straordinario descrittore della borghesia italiana, le sue speranze e le sue debolezze, la smania di esserci, la ricerca della felicità tutta e subito con una nevrosi che però la rende impossibile. Sono i nostri vizi, siamo noi».
Sul palcoscenico da circa un trentennio, un fratello, Beppe, musicista di talento (i due recitano insieme in Lascia perdere Johnny di Fabrizio Bentivoglio, in uscita nei prossimi giorni), Servillo non è figlio d’arte né uno nato con il sacro fuoco dell’arte. «Sì, però ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia di grandi spettatori... I miei genitori, i miei zii, era tutta gente che amava essere pubblico, che andava a teatro, al cinema, ai concerti con passione e con gusto... Questo mi ha trasmesso un amore per lo spettacolo in quanto tale, e per chi lo guarda, che poi mi è servito molto. Non si recita per sé stessi, ma per qualcuno, non si va a vedere uno spettacolo perché non si sa che fare... Sono un autodidatta, non ho frequentato scuole, ma è anche vero che alla fine degli anni Settanta c’era un fiorire spontaneo di gruppi teatrali, di collettivi, che rendeva tutto più facile, una sorta di comunicazione generazionale... Però non sono mai stato per un teatro penitenziale, oppure narcisistico, che punisce chi lo va a vedere o esalta il ruolo di chi sta sul palcoscenico e non ho mai pensato che la ricerca dovesse escludere la comunicazione».
Da vent’anni Toni Servillo lavora, come regista e come interprete, con la compagnia Teatri Uniti, di cui è stato uno dei fondatori. Ha messo in scena Zingari di Viviani, Sabato, domenica e lunedì di Eduardo, Il Misantropo e Tartufo di Molière, Le false confidenze di Marivaux. Prova in autunno, recita in inverno e in primavera, d’estate invece di riposarsi passa al cinema. «Detto così, sembra la Cayenna... Però è vero che quando e se faccio un film, lo faccio in quella stagione, perché è l’unica veramente libera che ho. Ci dev’essere una sceneggiatura che mi piace, la complessità del personaggio, un buon rapporto con il regista, non mi interessa fare un film tanto per fare un film. Quanto al tipo di tecnica, le confesso che sono un po’ restio a parlare della mia, come dire, officina d’attore. È fatta di dettagli, il comportamento, il look, un modo di muoversi. So che lei vorrebbe chiedermi di Andreotti, ma guardi, quando c’è un personaggio reale da interpretare, l’unica cosa è mettere da parte l’immedesimazione, estraniarsi, prendere le distanze, lavorare più intorno a un’immagine simbolica che non a un essere umano in carne e ossa. Di persona, io Andreotti non l’ho mai incontrato».
La politica a Servillo non piace. «Non è esatto. La seguo con interesse, cerco di fare la mia parte in un teatro legato alle istituzioni e, visto che non credo al teatro commerciale, cerco di farla con un certo rigore. Quello che della politica contesto è l’esibizione, l’ostinazione a rappresentarsi più che a rappresentarci. Nella loro smania di apparire, di occupare la scena, i politici non trovano più il tempo di creare. Non lavorano, comunicano, recitano, insomma fanno il mio stesso mestiere». Teatro delle istituzioni, teatro commerciale. Servillo ci tiene molto alle distinzioni. «Gioverebbero a tutti, meccanismi produttivi compresi. Se ne avvantaggerebbe il colloquio con gli spettatori. Nelle grandi città ancora si riesce a salvaguardarlo, ci sono gli stabili, ci sono i teatri di ricerca, ma in provincia c’è solo la confusione che genera uno spettacolo di bieca derivazione televisiva seguito a ruota da una recita artistica... No, non è un’offerta, una possibilità di scelta in più: lo Stato deve riconoscere l’utilità e l’importanza sul piano dei valori di un teatro d’arte, la deve difendere, tutelare. Ne va riscoperto il senso, perché il teatro ci dà l’occasione per riconoscere uno dei valori fondamentali, ovvero la vita stessa. Non è un oggetto, e per questo quando è brutto delude, perché è uno spreco, perché ci dà un senso di inutilità, di morte. È un’esperienza condivisa, dove non c’è passività, c’è un’energia legata alla passione e all’emozione, ha senso solo per questo». La televisione, par di capire, non fa per lui. «Be’, non l’ho mai fatta, ma non sono così presuntuoso e quindi, certo, mai dire mai... Ne temo i rischi di genericità, e allora, certo, meglio starsene lontano. Dovesse accadere, comunque, perché no?».
L’intervista è alla fine, Servillo ha fumato le sue sigarette in questo modesto ufficio del Piccolo che è un po’ un emblema di spartana nobiltà. Si parla ancora un po’ della sua passione per la musica classica, per uno scrittore come Gadda, «stimolo e nutrimento quotidiano per un uomo di teatro», per uno come Stendhal, «un innamorato della vita, il principe dei dilettanti nel senso giusto del termine, incantevolmente svagato, sempre appassionato». «C’è un personaggio romanzesco che le piacerebbe interpretare al cinema?» chiedo. «Sì, Zeno Cosini di Svevo. Credo che La coscienza di Zeno sia un’avventura straordinaria, una riflessione su un certo modo di essere italiani. Perché a me quello che non piace nei miei connazionali è la tendenza ad assolversi, a denigrarsi e così salvarsi, mettendosi l’anima in pace.

Forse è parte della nostra cultura cattolica, nei suoi aspetti più degenerativi, un ripiegarsi che taglia le gambe a ogni progettualità, vede il nuovo con paura, si raggomitola e raggomitolandosi si dà ragione. Sull’autoassoluzione noi italiani ci campiamo. E purtroppo ci campiamo bene».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica