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"La macchina trasforma il cervello. Analogico e digitale si connettono"

Lo psichiatra e psicoterapeuta spiega come cambia il nostro modo di pensare

"La macchina trasforma il cervello. Analogico e digitale si connettono"

Sbaglieremmo a vedere l'intelligenza artificiale come qualcosa di circoscritto, essendo questa un fenomeno molto più che tentacolare, con risvolti non secondari anche sulla componente psichica. Ne parliamo perciò con il professor Tonino Cantelmi, tra i maggiori psichiatri e psicoterapeuti contemporanei, che per primo in Italia ha studiato l'impatto della tecnologia digitale sulla mente umana.

Professor Cantelmi, come sta reagendo l'uomo a questo strumento incredibile che è l'IA?

«Parto da un'osservazione: il cervello è l'organo più straordinariamente adattabile che abbiamo. Consideriamo poi che i grandi cambiamenti della storia corrispondono a cambiamenti anche cerebrali. Il cervello dell'umanità è cambiato quando si è imparato a leggere o a scrivere, oppure quando l'elettricità è diventata parte delle nostre esistenze. Ora ci troviamo in una transizione di simile portata».

Cosa dobbiamo aspettarci?

«Da un cervello analogico approderemo a un cervello digitale. Il cervello umano perciò si adatterà plasticamente ad un nuovo pensiero, a una nuova forma di cognizione, volizione ed emozione, che è quella digitale».

Perché proprio adesso e non prima?

«Una ventina d'anni fa tutto questo sarebbe stato impensabile. Abbiamo avuto bisogno della dimensione dei social, che ha promosso questa evoluzione cerebrale. Oggi il cervello umano è pronto ad essere coprotagonista del cervello dell'IA, che non a caso sta evolvendo insieme a noi».

In che modo?

«Proponendosi sempre di più come quel mezzo in grado di sostituire il cervello umano, o almeno di integrarlo».

Qualcosa di diverso rispetto alle precedenti conquiste tecnologiche.

«Sì, perché il mondo tecnologico di oggi è sempre più mentale, a differenza di quanto accadeva anche nel più recente passato. Mi viene in mente la robotica, che si limitava a sostituire la muscolatura dell'uomo, ma non altro, e soprattutto non l'apparato cerebrale. Questa è la novità vera: l'integrazione del cervello umano con un cervello artificiale».

Quali sono gli effetti sulla nostra interiorità?

«Tutto ciò scatena diverse reazioni, inclusa la paura, l'ansia, l'angoscia. Entriamo nel campo dell'emotività, che rappresenta l'altra grande frontiera dell'IA, la cui ricerca sta andando sempre più verso forme artificiali di dialogo emotivo. Per l'IA dunque è e sarà essenziale interpretare le emozioni ed esprimerle, sotto forma anche in questo caso di sostituzione o integrazione: tra emozioni umane ed emozioni generate da sistemi operativi».

Lei crede che l'IA possa riuscirci?

«Ci riuscirà. Del resto si sta già lavorando in questo senso. Pensiamo a certe pratiche sperimentali di accudimento emotivo, come quelle destinate agli anziani, progettate tramite applicazioni IA. Si tratta di dispositivi particolari, volti a lenire l'afflizione derivante dall'isolamento, dunque a dispensare consigli, a felicitarsi per qualcosa, a spronare verso un obbiettivo che apporti del benessere. In sostanza, a corrispondere alle nostre emozioni».

Non lo trova tristissimo?

«Sposterei lo sguardo su un altro aspetto, che sta a monte, ovvero la solitudine generale dell'attuale periodo storico. Al netto di tutte le interazioni di cui disponiamo, social e non social, la totalità degli indicatori ci dice chiaramente che l'uomo è più solo, ogni singola persona oggi è più sola».

Rispetto a quando?

«Come termine indico gli anni '50 del secolo scorso, da quando si sono iniziati ad effettuare studi sulla solitudine. Riflettiamo su un fatto: è scientificamente acclarato che per mantenere una buona salute mentale si dovrebbero avere almeno 2 o 3 amici veri, diremmo intimi. Attualmente questa media sta scendendo, in generale siamo già sotto l'1,5 a testa, con livelli ancora più bassi nella nostra Europa. È proprio in questa ferita collettiva che s'inserisce l'IA».

In che modo?

«Coprendo, colmando questa enorme camera vuota che si è venuta a creare nel mondo».

Questo è il motivo per cui l'IA ha tanto successo?

«Certo. Se si vuole cogliere appieno l'IA bisogna considerare il raggio di solitudine estrema della società contemporanea. Da qui capiamo bene perché l'IA non fa che prometterci sempre e solo una cosa, ossia una scandalosa capacità di tenerci compagnia».

Non le sembra però che stiamo andando troppo oltre? Prendiamo le app afterlife: pagando un abbonamento mensile si elabora digitalmente l'identità di un defunto, che diventerà una specie di ologramma, un surrogato umanoide capace di comunicare coi propri cari ancora in vita. C'è qualcosa di grottesco?

«Questo rientra nella cosiddetta eternità digitale. Non è un tema nuovo, da almeno quindici anni si producono apparati in grado di ricostruire l'umano attraverso la personalità, la voce, le abitudini, il carattere: la possibilità di superare un lutto per mezzo del virtuale rientra perciò in questo scenario. È diventato famoso l'esperimento di una madre che aveva perso il proprio bambino. Dopo il decesso quello stesso bambino è stato ricostruito tramite l'IA. Indossando particolari sensori, la donna ha potuto poi muoversi nello spazio interagendo con la versione digitale del figlio: abbracciandolo, parlandoci, portandolo perfino al parco».

Ma questo vuol dire vivere un'illusione, cioè non vivere.

«Il problema è che l'umanità non riesce più ad accettare, e di conseguenza a gestire, la sofferenza, e in questa grande fragilità s'inserisce nuovamente l'IA, adibita a facilitare certi processi. Le faccio una confessione: all'inizio della mia carriera seguivo un gruppo di genitori che avevano perso i figli; un giorno scoprii che si recavano da alcuni medium, che promettevano loro di metterli in contatto coi figli defunti. È un po' il prototipo comportamentale dell'esperimento che le ho appena descritto: prima c'era un medium che garantiva l'incontro coi cari perduti, ora quell'incontro lo realizza l'IA».

Mi pare evidente che c'è un'esigenza, una sorta di trend psichico comune: rinviare il più possibile il contatto col dolore.

«È esattamente così. Ed è questa la grande scommessa dell'IA, come dei social: renderci felici».

Una scommessa vinta, secondo lei?

«No. Credo anzi che proprio su questo punto la società prenderà una sbornia. Voglio dire che grazie alle nuove tecnologie abbiamo solo la sensazione di essere felici.

E ce lo confermano i dati sulla depressione, la prima causa di invalidità in tutto il mondo. Un fardello di portata apocalittica, che tuttavia potrebbe spingerci a cambiare, praticando una diversa grammatica delle emozioni».

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