Il tribunale "woke" che in nome dell'Altro ci condanna al pensiero totalitario

Studenti e docenti si sono trasformati in «guerrieri della giustizia sociale». Il loro lavoro è diventato convalida di scelte militanti calate dall'alto

Il tribunale "woke" che in nome dell'Altro ci condanna al pensiero totalitario

Quasi un secolo dopo la presa del potere dei nazisti, l'Europa e l'intero Occidente sono ossessionati dalla paura di un ritorno degli antichi dèmoni. Il loro sradicamento sembra essere una missione sacra e un compito infinito. «Mai più» significa innanzitutto: mai più piegarsi alla forza bruta, mai più «il regno ignobile e incredibile dell'elementare», mai più l'idolatria delle radici, mai più il complesso di superiorità, mai più la disuguaglianza di razza e l'odio per tutto ciò che è diverso da sé. Quel passato nazionalista, schiavista, colonialista e imperialista, che ha causato innumerevoli vittime, impone ai paesi occidentali l'obbligo di rettificare la propria situazione e di raddoppiare la vigilanza. Questa vigilanza è oggi chiamata wokismo. Lo slogan «Stay woke!» (Stai sveglio!), che inizialmente era quello del movimento Black Lives Matter, si è infatti generalizzato e ha trasformato il panorama intellettuale di tutte le società occidentali. Nelle università, diventate irriconoscibili, le tradizionali discipline umanistiche sono state spazzate via da innumerevoli studies: african-american studies, women studies, gender studies, queer studies, lesbian studies, gay studies, whiteness studies, subaltern studies, post-colonial studies ecc. Spinta dalla volontà di liberarsi da una storia orrenda dando la caccia incessantemente alle ingiustizie e alle discriminazioni subite dalle minoranze etniche, sessuali o religiose, la ricerca ha lasciato il posto alle rimostranze e l'inalterabile sete di conoscenza a un'accusa sempiterna. Studenti e docenti si sono trasformati in «guerrieri della giustizia sociale». Il loro lavoro è diventato convalida di scelte militanti calate dall'alto. Come ha giustamente scritto Jean-François Braunstein: «Non possiamo fare studi di genere se pensiamo che il genere non sia una scelta, né studi sulla razza se crediamo che il razzismo non sia sistemico, né studi sull'obesità (fat studies) se pensiamo che l'obesità non sia uno stile di vita scelto come qualsiasi altro, né animal studies se giudichiamo che gli animali non sono esseri umani come gli altri, e via dicendo». Questi studi non indagano, incriminano. Non cercano il sapere ma solo la conferma del loro sapere, cioè di perfezionare la loro accusa. Parte, ciascuno di essi, di una rimostranza particolare, designano tutti lo stesso, unico colpevole: l'uomo bianco occidentale eterosessuale. Aprono, con un passe-partout, le diverse porte del reale. Se le oppressioni sono molteplici, le lotte convergono e due specie umane, in ultima istanza, si fronteggiano: «quella», diceva già Nizan, «che schiaccia e quell'altra che non si adatta a essere schiacciata». La speranza comunista non è sopravvissuta alla caduta del muro di Berlino, ma con il risveglio che riempie il vuoto e sotto l'egida del concetto di intersezionalità, la contrapposizione di due visioni la fa ancora da padrona. Attraverso la magia delle Idee, la pluralità umana e con essa la complessità, l'opacità, l'ambiguità, la sfumatura scompaiono dalla superficie della Terra: tutti i destini sono edificanti, nessuna situazione è inestricabile, nulla, in definitiva, sfugge al Grande Antagonismo. Il male imperversa e il suo volto è esclusivamente europeo.

Basta leggere la formulazione delle tesi per conoscerne il contenuto. Non si tratta di inchieste o esercizi di pensiero, ma di manifesti: «Dall'idea di un'invasione migratoria nei media francesi (dagli anni ottanta a oggi)»; «Islamofobia in Francia e nei paesi confinanti»; «Biforcazioni di genere: sperimentazioni e reti di sostegno per le persone trans»; «Dal moresco all'arabo: la creazione di un cliché mediatico, una questione al crogiolo tra postcoloniale e genere». E quando l'università Paris 7 bandisce un concorso per un posto di docente di filosofia, lo fa con la seguente indicazione: «Ci si aspetterà una pratica di intersezionalità ponderata, non come metodologia regionale, ma come modalità di problematizzazione generica e trasversale, atta a rendere più complessa l'analisi delle logiche del dominio, nella loro profondità genealogica come nelle loro configurazioni contemporanee, e trasformare le condizioni di leggibilità delle traiettorie individuali e collettive della soggettivazione emancipatrice, delle invenzioni del corpo, della memoria e del linguaggio operanti nella ricostruzione della capacità politica». Mmh. Questa sì che è un'offerta di lavoro che ti fa venire l'acquolina in bocca, di quelle che ti fanno rimpiangere profondamente di aver superato l'età per candidarti.

«Tra tutti i modi di leggere i grandi libri del passato, ce n'è uno che prediligo: è quello che cerca in essi non quello che siamo, ma proprio ciò che nega ciò che siamo», scrisse una volta Octavio Paz. Questa predilezione è ormai obsoleta. Perché distaccarci da noi stessi, proprio noi che, a differenza dei nostri antenati, abbiamo scelto di destarci per sempre dal sonno e di guardare in faccia l'abiezione? Tutte le generazioni precedenti avevano degli angoli morti. Solo noi possiamo vantarci di non dimenticare nessuno. Razzismo, islamofobia, sessismo, odio anti-LGBT, grassofobia, abilismo, specismo: non tolleriamo alcuna forma di esclusione, inventariamo e stigmatizziamo le stigmatizzazioni senza ometterne nessuna, non siamo mai andati così lontano nel riconoscimento dell'Altro. Abbiamo superato la perdita del concetto hegeliano di conoscenza assoluta, per rimpiazzarlo però con la certezza non meno presuntuosa di essere dotati di un cuore assoluto, di una sensibilità definitiva e insuperabile. Nel 2020, durante la conferenza annuale della Society for Classical Studies, un professore di Princeton fece scalpore denunciando l'ingiustizia sistemica della disciplina che insegnava, e il New York Times riassunse il suo pensiero dicendo che ai suoi occhi «i classici e la bianchezza erano le ossa e i nervi di uno stesso corpo, che si erano rafforzati insieme e che forse dovevano morire insieme». Una collega britannica ha declinato fermamente questo invito a scomparire. Ha invocato la preservazione del suo campo di studi dimostrando che i romani erano stati i primi multiculturalisti. Il punto è sapere di che morte dobbiamo morire. Il passato o ci annuncia o ci somiglia, ed è quindi degno di essere conservato; o è oppressivo e bisogna bruciarlo sul rogo, o almeno ritenerlo responsabile. Ciò che è impensabile, in ogni caso, è che esso possa darci qualcosa su cui riflettere. Non siamo più i suoi eredi, siamo il suo tribunale. Esso non ci illumina più, non ci istruisce più, non ci edifica più; mettiamo tutta la nostra conoscenza per conformarlo o decostruirlo.

La proposta umanista ci invitava ad attingere al tesoro della memoria per decifrare gli enigmi della condizione umana. Se ancora c'è un dovere di memoria, risiede tutto nell'obbligo di ricordare i crimini che hanno segnato la storia dell'Occidente. Mentre l'unica domanda valida oggi è se si debbano abbattere le statue degli infami o, come auspica François Cusset, autore di French Theory, «tenere il volto del nemico davanti agli occhi», perché «pulire la città dai simboli del passato è anche un modo per disarmare la lotta». Vandalismo o dannazione: questa è l'unica alternativa.

Il nemico, del resto, è ovunque. Anche nell'idioma che parliamo in completa innocenza. I sostenitori intransigenti dell'uguaglianza si sono impegnati a liberare le donne dal burqa linguistico che, per secoli, aveva seppellito la loro esistenza. Ed eccole finalmente riportate alla luce grazie alla scrittura inclusiva e all'uso sistematico anche nelle più alte sfere dello Stato di «quelle e quelli», «ciascuna e ciascuno», «tutte e tutti», come se le viaggiatrici si sentissero dimenticate o insultate quando i viaggiatori erano invitati a non scendere dal treno fermo in aperta campagna. E come se non si dicesse una persona, una sentinella, una figura, una staffetta, un'ordinanza o, in tempi patriarcali, di Sua Maestà che Ella aveva trascorso una notte difficile.

Così, l'epoca attuale sconfigge la sua colpa con giubilante zelo. Risolutamente impegnata nella strada riparativa dell'uguaglianza, si vanta della sua vergogna, vive nel tempo del shame pride. È attraverso il pentimento, infatti, che marca la sua supremazia. Vuole aprirsi all'Alterità. Ma, in realtà, non esce mai da se stessa e, forte della sua sensibilità assoluta, non vede la trave che è nel suo occhio. Conduce una feroce lotta contro il nazionalismo e testimonia uno sciovinismo del presente che non ha equivalenti nella storia umana. Arroganza penitenziale, trionfo del Medesimo sotto la bandiera dell'Altro, suprematismo egualitario: questo è il triplice paradosso del nostro tempo. Volevamo trarre tutti gli insegnamenti dagli anni bui tanto anticipati e poi descritti da Thomas Mann e abbiamo finito per attingere alla critica da lui formulata nel 1931 in La rinascita dell'etica. Una critica che oggi non si può ascoltare. Come può qualcuno opporsi all'antirazzismo senza essere razzista o essere profondamente femminista senza mostrare la propria inconcepibile misoginia? Il pensiero risvegliato è troppo generoso per non essere totalitario. Il suo avversario è necessariamente una canaglia, uno da cancellare, e con urgenza.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Prima edizione in «Feltrinelli Gramma» maggio 2025

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