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Dal salotto di "Mattino 5" alle trincee. La parabola dell'inviato Milani

In Israele per Mediaset, ha conquistato spettatori (e colleghi) con garbo e senza mai alzare la voce. "La cosa più importante è farsi capire dalle persone a casa"

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Il rischio, quando qualcuno ci cresce dentro casa, è quello di osservarlo con uno sguardo indolenzito. Il giorno in cui Mediaset ha sgranato gli occhi su Elia Milani è stato il 13 novembre del 2015. C'era appena stato l'attentato al Bataclan di Parigi, ancora non si sapeva ma i morti sarebbero stati novanta solo all'interno del locale, centotrentuno in tutto oltre ai quattrocentotredici feriti. Lui stava facendo un servizio per Quarto Grado e dal collegamento iniziò a tradurre in diretta i messaggi in arabo che gli islamici si scambiavano sui social per esultare di quell'orrenda carneficina.

Bravo lo avevano sempre considerato bravo, ma quello fu il giorno del «disvelamento» come si direbbe in psicanalisi. È lì che in azienda si sono resi «davvero» conto di Milani che oggi vediamo spalmato su tutti i programmi di informazione e i tg Mediaset con il giubbotto antiproiettile mentre racconta la guerra nella Striscia di Gaza da Gerusalemme e da Tel Aviv. Israele ce l'aveva in qualche modo nel destino. Il padre da giovane avrebbe voluto fare il prete e visto che è sempre stato un amante delle Sacre Scritture e dell'Antico Testamento, pur essendo cristiano, ha dato ai figli tre nomi ebraici: Iaela, Elia e Sara. E quando Elia si trasferisce a Milano per iniziare a lavorare a Mediaset come giornalista (Mattino Cinque, Matrix, Terra...) la prima casa in cui va ad abitare è vicina al quartiere ebraico.

Lui in realtà nasce a Pavia (il 20 agosto del 1984) ma cresce a Biella perché lì, i genitori dirigono una comunità di recupero per tossicodipendenti. È normale per lui passare del tempo con i ragazzi del centro che gli insegnano a giocare a calcio (tifa Juventus) e a suonare la chitarra. Sembra sia lì che allena la curiosità per le situazioni e le persone che non conosce e sviluppa un'empatia che oggi lo porta a non dire mai una parola fuori posto e ad essere gentile e accogliente praticamente con chiunque. A Biella frequenta il liceo scientifico dove conosce quella che oggi è sua moglie (ma lui e Arianna, che è un'ingegnere gestionale, si mettono insieme solo anni dopo reincontrandosi un giorno per caso a Torino), poi si laurea in Antropologia Culturale e fa la scuola di giornalismo Walter Tobagi. Parla inglese, spagnolo, arabo ed ebraico. Al suo professore di storia una volta confessa che vorrebbe essere come Tiziano Terzani perché gli piacciono i suoi libri ma ancor di più gli piacciono tutti i viaggi nei quali si è perso e si è trovato. Sei anni fa Mediaset gli chiede di andare a fare il corrispondente da Gerusalemme e lui accetta con entusiasmo. Si trasferisce con la moglie ma quando si tratta di far nascere la loro bimba, che compirà tre anni il 26 dicembre, optano per l'Italia (dove sono tornate anche adesso vista la situazione in Israele).

In Mediaset, dai capi ai colleghi, nessuno si inasprisce sentendo il nome di Milani, né che sia disposto a parlarne meno che benissimo: «È gentile, educato, integro, mai protagonista, infaticabile, fa sempre più di quanto gli si chieda ed è un fuoriclasse, molto eclettico», raccontano i giornalisti di molte delle testate per cui lavora. «Avremmo potuto mandarlo anche a Bruxelles o a Berlino o in Turchia... sarebbe in grado di stare ovunque». Ha anche un blog su Tgcom24, Voci dal Suq, che però non aggiorna da un po'. «Fa quasi tenerezza è uno di quei professionisti che ancora accoglie il mestiere come uno stato di grazia, è grato per qualunque incarico gli venga assegnato», racconta un dirigente Mediaset. È un uomo d'azione ed è un uomo di cultura, «ogni volta che passa da Milano viene a fare due chiacchiere e mi chiede sempre dei titoli di libri, è un lettore accanito. L'ultima volta gli ho dato L'ombra del Vento, di Carlos Ruiz Zafón: lo consideravo un regalo, e non ricordavo nemmeno più di avergli consegnato quella copia ma lui me lo ha restituito...», racconta un altro. Sembra che nemmeno la sovraesposizione mediatica dell'ultimo periodo (tra bombe, elmetti e sirene d'allarme) sia stata in grado di spostarlo dal senso della misura che lo tiene saldamente ancorato a terra come si evince da come interpreta il lavoro: «A Mediaset mi hanno insegnato che la cosa più importante è farsi capire dalle persone a casa.

La mia responsabilità è questa».

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