Per tutti gli anni in cui frequentai il liceo, al mio paese, ogni domenica alle nove in punto mi trovavo con alcuni amici per trascorrere la mattinata presso il locale ospizio per gli anziani, chiacchierare con loro, cantare un po di vecchie canzoni, ascoltare le loro storie. A me piaceva molto andarli a trovare, anche perché suonavo la chitarra e questo faceva di me il loro beniamino. Loro ci aspettavano sempre con ansia, ed è probabile che vedessero nella nostra allegria e nella nostra ingenuità qualcosa di prezioso, che nemmeno noi sapevamo, e che non era la gioventù, bensì qualcosa di più sottile, una sorta di speranza.
Erano i (più o meno) favolosi anni Settanta, quando dentro e fuori la scuola tutto era sempre e solo politica.
Un giorno un compagno «compagno», detto El Charro, durante una discussione cominciò a parlare del mio gruppo e delle visite al ricovero. Sapeva tutto: chi eravamo, in quanti eravamo e cosa facevamo dal nostro ingresso allospizio alluscita. Evidentemente, aveva raccolto molte informazioni su di noi.
Il tono del suo discorso era, va da sé, strafottente.
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