
La domanda «Perché scrivi?» rivolta a uno scrittore apparentemente ha lo stesso senso - poco - della domanda «Perché leggi?» rivolta a un lettore. Lo faceva già notare Raymond Radiguet, romanziere e poeta vissuto così poco - morì a vent'anni - da non avere tempo per risposte del genere. Eppure riflettere su cosa spinga i grandi scrittori a sedersi al tavolo di lavoro Ogni maledetta mattina - come Alessandro Piperno titola le sue «Cinque lezioni sul vizio di scrivere» (Mondadori) - può essere utile per capire meglio il senso di certi libri. La motivazione preliminare all'atto di scrivere (etica o meno che sia: fama, soldi, ambizione, ansia di giustizia, battaglia politica...) dice qualcosa anche sul fine dell'opera; e di certo parecchio sull'autore. Quando dovette spiegare la vocazione totalizzante che l'animava, Simone de Beauvoir - la grande mère del femminismo - spiegava che «una donna scrittrice non è una donna di casa che scrive, ma qualcuno la cui esistenza è condizionata dallo scrivere». La letteratura come il più potente strumento di azione sul mondo.
Un po' manuale sull'arte di scrivere, un po' seduta psicoanalitica d'autore, un po' rassegna di itinerari creativi esemplari (Montaigne, Flaubert, Salinger, Roth e cento altri), il saggio di Piperno è una straordinaria meditazione sul mistero della scrittura: «Il gesto, la perversione, il demone che la ispirano, e non smettono di fomentarla». Qualcosa che col tempo assume «la monotonia di un vizio e la solennità di un rito».
Senza inutili solennità e per nulla monotono, Piperno spazza via alcuni tossici luoghi comuni sulla scrittura (ad esempio che si possa scrivere «solo per se stessi», che è la consolazione dei perdenti: scrivere senza la prospettiva di essere letti è forma patologica, come parlare da soli) e soprattutto, chiamando a testimoni i maestri della letteratura, evidenzia cinque buone ragioni che spingono a scrivere. Ambizione. Odio. Responsabilità. Piacere. Conoscenza.
Virginia Woolf, ad esempio, era ossessionata dal consenso: nel suo diario ripete che senza lodi le è difficile cominciare a scrivere la mattina. E premi, vendite, recensioni, interviste, inviti ai festival e in tv - oggi come ieri - non sono altro che la dose quotidiana di elogi e incoraggiamenti di cui lo scrittore (maschile sovraesteso: ci sono dentro anche le scrittrici) ha bisogno per continuare a passare ore chino su una scrivania. A proposito. Piperno - il quale dopo il Premio Strega vinto nel 2012 con Inseparabili decise di non partecipare più ad alcuna competizione letteraria - ricorda il caso limite di Francis Scott Fitzgerald, «il più balzacchiano tra gli scrittori americani» (Balzac desiderava solo tre cose nella vita: il saldo dei debiti, un buon matrimonio e soprattutto la gloria letteraria). «La brama del successo e l'ossessione per la bella vita gli erano talmente connaturate da condizionare la sua musa». E poi, certo, si dovrebbe parlare del carrierismo di Saul Bellow che considerava il denaro «il carburante necessario per mettere in moto le sue complesse macchine narrative». L'altro lato della medaglia, o della moneta, sono gli effetti devastanti della gloria, narrati - ad esempio - in Lunar Park di Bret Easton Ellis, uno che dopo American Psycho divenne famoso come una star dello sport. Commento di Piperno: «Niente come un'ambizione mal gestita rischia di ridurti al silenzio».
Per quanto riguarda l'odio - sentimento che trova spazio in quasi tutti gli scrittori, spesso in maniera proporzionata al talento - c'è da dire che ha prodotto i capolavori più grandi. Baudelaire diventa Baudelaire in odiosa antitesi con i grandi poeti che lo hanno preceduto. Thomas Bernhard dà il meglio di sé sfogando il suo odio verso la buona borghesia austriaca. Louis-Ferdinand Céline («il santo patrono degli odiatori del Novecento») dal più spregevole razzismo e dal disprezzo per la Francia del suo tempo estrae alcune delle migliori pagine della letteratura moderna. Senza dire dell'ostilità feroce di Flaubert per borghesi, stupidi e «filistei»...
Poi ci sono coloro che scrivono obbligati dal senso di responsabilità. Sono - numericamente meno consistenti - gli scrittori che vogliono raddrizzare le storture della società, gli idealisti (o gli ingenui?) posseduti dal sacro fuoco della Verità e della Giustizia, convinti «che la letteratura possa cambiare il mondo» e che «se non tenta di farlo non è letteratura». Modelli di scrittore-responsabile? Da una parte Tolstoj, convinto che il fine ultimo della letteratura non sia il piacere ma il Bene (ma ci sono anche gli scrittori-testimoni, come Primo Levi, Paul Celan, Anna Achmatova..); e poi Jean-Paul Sartre e compagni, per i quali scrivere significa servire il popolo. La famosa funzione sociale dell'intellettuale, da Zola agli indignati in servizio permanente effettivo. Quelli che non sanno resistere all'appello di firmare un appello.
Poi c'è il piacere. È la letteratura come gioco, fatta di sogno e avventura, che vuole solo narrare grandi storie e raccontarle bene, cioè con stile (cui si arriva però con disciplina monastica e ostinazione fanatica). Il rischio, certo, è l'autocompiacimento. Ma il risultato può essere meraviglioso. Il massimo romanziere di piacere? Forse Stendhal. Altri adepti della setta degli edonisti secondo i quali «per essere felici la vita non è sufficiente» e serve la letteratura? Dickens, Nabokov, Capote, Borges...
E infine, la conoscenza. Cioè la ricerca della conoscenza di sé e del mondo. Cosa che appartiene agli scrittori - maxime Proust e Kafka - consapevoli che la vita vera sia l'arte. Per loro scrivere e vivere sono la stessa cosa. Tanto da compromettere, sull'altare della scrittura, tutto il resto: salute, affetti, socialità...
Da cui la sentenza finale di Alessandro Piperno: «Tra i motivi che spingono a scrivere che ho illustrato, il desiderio di conoscenza mi pare non solo il più nobile, il più estenuante, il più difficile da perseguire, ma anche il più artisticamente proficuo».