Sullultimo numero di Metropoli, lallegato per stranieri di Repubblica, appare una lettera a firma di una lettrice, Jinchuan He, che prende le distanze da Man Lo Zhang, la cinesina-cartone-animato diventata famosa grazie al «Grande Fratello» e che in questi giorni - notizia appresa sul magazine tivù di Studio Aperto - ha problemi di soggiorno. La lettrice lamenta che da quando la sua connazionale è diventata popolare, per la strada non la chiamano più «Cin Ciun Cian» o semplicemente «Cina» come facevano prima, ora la chiamano tout court Man Lo.
La lettrice a questo punto precisa di non aver nulla contro la vivace showgirl, che peraltro giudica una simpatica individualista dalle spiccate doti mediatiche, rileva piuttosto di non riconoscersi affatto in lei; che i cinesi non sono tutti così e soprattutto spera che gli italiani se ne rendano conto. Che i cinesi non siano tutti così lo avevamo capito e che non siano tutti uguali pure. Basta guardare luci e ombre di una comunità molto diffusa in Italia, che sembra avere strategie ben definite per inserirsi nella società e nella sua vita produttiva. Quando parliamo di ombre pensiamo a quei cinesi dalla competitività non sempre trasparente; a quelli che trovano pochi riscontri con gli altri immigrati; che fanno parte «del popolo che non muore mai» o che salgono a onor di cronaca per brutte vicende, come le recenti pratiche di aborti clandestini effettuate in condizioni igieniche pericolose. Ma poi, come a tutte le latitudini, cè laltra faccia della Cina in Italia, quella dei cinesi brava gente, operosa e riservata, e capace di protestare, come la scorsa settimana a Milano, per le truffe di alcuni disonesti connazionali.
Intanto una nuova generazione di giovani più inseriti e capaci di comunicare avanza. La buffa Man Lo, con i suoi eccessi, può anche essere letta come un primo passo per avvicinare gli italiani a una cultura a tratti sconosciuta e per questo non facile da capire. Al di là dei pregiudizi.
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