Dissacrante, ironico, feroce: il Chuck Palahniuk del nuovo romanzo Senza veli, appena uscito per Mondadori (pagg. 186, euro 17,5) torna agli antichi splendori dopo prove narrative non certo all’altezza del suo genio. L’ultimo Pigmeo (ma anche i precedenti Rabbia e Gang Bang) era a dir poco deludente, tanto che la stessa Mondadori ammette che si trattava di un «romanzo difficile». Palahniuk, dunque, è tornato a scrivere «senza veli»: uno stile ipnotico, fulminante, che non lascia respiro a chi vorrebbe incentivare la narrativa da mausoleo. Quella, per intenderci, impiegata da Antonio Pennacchi in Canale Mussolini: 460 pagine che si potevano riassumere in 20. Questione annosa: già il grande Céline quando gli chiedevano che cosa pensasse della Recherche di Proust non nascondeva i suoi dubbi: «Proust sarà anche bravo, ma vogliate ammettere che 200 pagine per dire che la vuoi prendere nel culo sono un pochino troppe».
Sin dal suo esordio con Fight Club, pubblicato per la prima volta in Italia da SugarCo su consiglio di Fernanda Pivano, Palahniuk ha cambiato le regole del gioco narrativo. Più di Ellroy, più di Easton Ellis, più di McInerney il suo essere fuori da ogni schema è sempre stato coerente, anche a corso di incorrere in antipatie. Come quando, dovendo fare un tour firmacopie per l’Italia, dichiarò che invidiava Anna Frank perché almeno le erano state risparmiate le presentazioni. Ma al di là del personaggio è sulla carta che Palahniuk manda ko i suoi avversari. E i suoi avversari non sono gli altri scrittori, che ignora bellamente, ma i suoi lettori. Ogni suo romanzo, soprattutto nei più riusciti Survivor, Invisible Monsters e Soffocare, è un corpo a corpo con i fantasmi della nostra ipocrisia. In Senza veli (titolo originale Tell-All, Dilla tutta) di certo lo scrittore, che in molti hanno cercato di ingabbiare nella definizione di «portavoce di una generazione cresciuta all’ombra di Columbine e dell’11 settembre», ci racconta la Hollywood dei tempi d’oro, quelli per intenderci delle litigiose Bette Davis e Joan Crawford.
Ben lontano dal voler fare un remake cartaceo di Viale del tramonto, il film diretto da Billy Wilder nel 1950 sulla decadenza di una diva del cinema, Palahniuk vuole dimostrare come nulla, o quasi, sia cambiato nel modo in cui noi spettatori ci rapportiamo con le stelle dello spettacolo. Un rapporto morboso, quasi patologico, che non si risolve cambiando canale. Palahniuk in questo è un implacabile Terminator dei nostri sogni di celluloide. Descrive i moltissimi «attori» di questo romanzo - artisti, giornalisti, registi, uomini di potere - come un unico grande show. Come il più grande show del mondo. I suoi protagonisti sono molto più vicini ai freaks raccontati da Katherine Dunn in Carnival Love (questo il titolo dell’ultima edizione italiana, pubblicata da Elliot). D’altronde da sempre Palahniuk ammette di trovare nella Dunn, scrittrice e commentatrice sportiva di boxe, una musa ispiratrice. Non sempre ci riesce, la Dunn è irraggiungibile, ma in questo Senza veli le si avvicina. Come in preda alla sindrome di Tourette, che porta chi ne è afflitto a dire e fare tutto ciò che pensa, lo scrittore americano non risparmia nessuno. Attraverso un romanzo che ha i contorni della fiaba noir e della sceneggiatura cinematografica, ci racconta il dramma di protagonisti «allenati tutta la vita a non posarsi mai su nulla se non l’obbiettivo di una cinepresa» e a essere condannati ad avere «un destino più triste della morte trascorrendo l’intera eternità come prigionieri, come zombie, riportati in vita solo per le cene di gala». Più o meno come accade nella maggior parte dei nostri ritrovi editoriali o festival letterari.
Lasciamo al lettore il piacere di scoprire la trama, non priva di colpi di scena e basata sulla storia d’amore tra un’attempata attrice e un prestante gigolò. Nel passaggio più importanti del libro, Palahniuk sottolinea come «il mestiere di stella del cinema consiste nell’aiutare la gente a dimenticare i proprio problemi» e che quello che davvero è necessario per difendersi da questi «mostri» non sono delle «barriere psicologiche ma un vero e proprio antidoto». Come un libro, questo. Teorie che Neil Postman nel suo Divertirsi da morire, saggio capolavoro ripubblicato in Italia nei Tascabili Marsilio, ha dimostrato con estrema e terrorizzante efficacia.
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