William Faulkner

In un articolo del 2001 intitolato Un incontro: prima, e ultima, immagine di Faulkner (in Faulkner, ancora, Palomar, Bari 2004), Mario Materassi, faulkneriano di platino (per Adelphi cura l’opera intera del genio, volume per volume), ci racconta di quando andò a trovare il suo paladino, nella putredine del Sud, Lafayette, Oxford, Rowan Oak, luoghi leggendari per chi ha vagato con venerazione dentro L’urlo e il furore, nelle viscere strepitose di Assalonne, Assalonne! Dietro la porta a rete «appare una sciatta figura minuta. È lui». È Faulkner, con «quel viso affilato da volpe, solo in parte coerente con le fotografie che conoscevo: i baffi giallognoli, e non grigi come li avevo immaginati; i denti sciupati, appena visibili fra le labbra sottili che quasi non si muovevano; la figura più tozza, benché minuta, di quanto m’aspettassi». Da Faulkner, comunque, c’è da aspettarsi di tutto: infatti il genio, dal fondo dei suoi «occhi chiari, freddi», non esce neanche dalla porta, abbandona il professor Materassi sulla soglia di casa: «ripeté che non gradiva intrusioni». Diciassette giorni dopo, il 6 luglio del 1962, Faulkner lasciava la Yoknapatawpha letteraria per quella celeste.
Immaginatevi questo vecchio, quest’uomo che ha vissuto il vortice della sofferenza, tramandandolo nei suoi libri fitti di urla e di pianti, di morte e di perdizione, questo ubriaco, questo lussurioso, questo bastardo che si mette a scrivere favole per bambini. La favola in questione si chiama L’albero dei desideri, viene ripescata dai cassetti nel 1967, quarant’anni dopo che Faulkner l’ha scritta, a mano, «Per la sua cara amica Victoria il giorno del suo ottavo compleanno». Catapultiamo la favola nel tempo suo: Victoria, vezzeggiata dai genitori come «Cho-Cho» (farfalla), è la figlia di Estelle Oldham, antica, prima (e non unica) fiamma di Faulkner fin dall’adolescenza, e dell’avvocato Cornell Sidney Franklin, il tizio che la fatale fanciulla ha sposato nel 1918 (dopo che, pare, Faulkner aveva rifiutato di fuggire con lei mollando il mondo). A quel tempo Faulkner gioca a fare il dandy, si fa chiamare «il Conte», si veste con abiti improbabili scrivendo poesie egualmente improbabili (pubblicandole artigianalmente in fogge spudoratamente barocche, oscene).
La favola però è di qualche anno dopo: nel 1927 Estelle chiede il divorzio dal marito, lo ottiene due anni dopo. Nel frattempo, Faulkner si è innamorato una manciata di volte, nel 1926 redige una straziante favola d’amore, Mayday, dedicata a Helen Baird (un’altra tizia a cui ha chiesto la mano, ricavandone un sonoro rifiuto). Insomma, cinicamente, quando Faulkner scrive una favola è per cavarci qualcosa: Estelle alla fine lo sposa il 20 giugno del 1929 (informazioni dettagliate sulla vitaccia di Mastro William le trovate nella «Cronologia» redatta da Fernanda Pivano per il «Meridiano» Mondadori che raccoglie le Opere scelte di Faulkner). Le date non sono casuali: nel 1929 Cape pubblica L’urlo e il furore, Faulkner termina la scrittura del violentissimo Santuario, comincia quella di Mentre morivo. È la fase notevole, aurea, paradisiaca di Faulkner: in una manciata di anni scrive i libri che sconvolgono la storia della letteratura americana. In mezzo, c’è sempre il turbine furibondo del dolore: al principio del 1931 Estelle partorisce una bimba prematura, la chiama Alabama, come la zia prediletta di Faulkner. L’ospedale di Oxford non possiede un’incubatrice: Faulkner torna a casa con la bimba, che muore qualche giorno dopo. Nel viavai infernale di realtà e finzione, Faulkner rievoca il dolore nel memorabile racconto «a dittico» Le palme selvagge.
Torniamo alla favola, pubblicata ora da Donzelli in un’edizione sgargiante, pregna d’illustrazioni vigorose firmate da Eloar Guazzelli (un libro, come molti, più che per bambini per adulti raffinati o per collezionisti, sicuramente un volume sontuoso che collezionerà un congruo numero di premi). Drasticamente: è uno «scherzo» faulkneriano, una bizzarria priva di pregio, una cosa che vale la pena solo per gli affezionati? Io sono uno che pensa pregiudizialmente che tutto ciò che sgorga dalla penna di Faulkner è oro letterario, e che sarà una favola a salvarci dall’orrore dialettico dei romanzieri odierni. Quindi? È proprio questa la pietra filosofale? Non proprio, nel senso che Faulkner è ancora il boy-scout del nonsense, allestisce una storiella molto english, che più che a Lewis Carroll mirano, infine (orrore, orrore) a Frances Hodgson Burnett.
La storia di Dulcie che si risveglia il giorno del suo compleanno in un mondo capovolto promette bene, pare farina faulkneriana doc (incipit formidabile: «Dormiva ancora ma si sentiva sollevare e uscir fuori dal sonno, come una mongolfiera, come un pesce rosso in una boccia rotonda di sonno che saliva e saliva fino alla superficie di quelle calde acque, finché alla fine sarebbe giunto il risveglio»), poi si smaterializza in una serie di dialoghi bambineschi e di quadretti farseschi. Così la fatata Dulcie che incontra «il ragazzo dai capelli rossi», penetra un pirotecnico mondo di effusive stranezze, tra cui spicca il «dulcimax», l’«albero con le foglie bianche» ma che cambiano colore a seconda dei desideri di chi le strappa (quelli di Dulcie sono blu) e promettono allettanti leccornie; i leoni saettanti e gli uccelli famelici, infine l’albero che invece è «un vecchio signore alto con una lunga barba scintillante d’argento» si chiama san Francesco, regala uccellini a tutti e insegna che non bisogna eccedere nei desideri insulsi, richiamano alla mente il «Kipling di terz’ordine» di Puck il folletto (il violento paragone è di Faulkner, parlando del proprio racconto This Kind of Courage, del 1934).
L’errore è che Faulkner, colpevolmente, scrive una favola per bambini pensando ai bambini con lo sguardo di un consenziente adulto, senza capire che, come scriveva I.B. Singer, «i bambini sono assai interessati alle cosiddette questioni eterne: chi ha creato il mondo? Chi ha fatto la Terra, il cielo, gli uomini, gli animali? \ I bambini riflettono e si interrogano su questioni come la giustizia, il senso della vita, il perché del dolore». Ecco, Faulkner avrebbe dovuto intessere una storia dolente, frastagliata di bene e di male, piena di fratture divine: una specie di L’urlo e il furore in versione baby. Ma è chiaro che non si può chiedere tutto ai titani.

E forse se Faulkner non ha pubblicato un racconto che voleva essere un balocco d’infanzia qualche motivo c’è. Bellissima, eterna, da conservare come un monile, la dedica, che poi ha il valore di un epitaffio, in cui «Bill» augura a Victoria «non piangere mai/ nemmeno nei sogni,/ resta per sempre bella e giovane».

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