Cultura e Spettacoli

ZAMBRANO La parola come patria

Continua la straordinaria fortuna letteraria di María Zambrano e aumenta il numero delle traduzioni italiane dei suoi libri; in questi giorni escono due nuove opere: La Spagna di Galdós (Marietti, cura e introduzione di Annarosa Buttarelli, traduzione di Laura Mariateresa Durante) e Per abitare l’esilio. Scritti italiani (ed. Le Lettere, a cura di Francisco José Martín). È un fenomeno che si fa fatica a comprendere in un periodo segnato da una grande crisi e disaffezione nei confronti di ogni prodotto della cultura umanistica, se non si tiene conto della rilevanza acquisita dalla Zambrano, figura tra le più originali della filosofia del Novecento, e della straordinaria modernità della sua opera.
Forse la particolare biografia di questa scrittrice mite ma dotata di grande energia, allieva di Ortega y Gasset, ferma oppositrice del regime franchista per cui abbandona la Spagna dopo la guerra civile per farvi ritorno nel 1984, come anche il conferimento del Premio Cervantes - prima donna nella storia spagnola - e ancora l’esilio romano durato più di dieci anni sono elementi che da soli possono spiegare la simpatia umana che circonda la persona. In realtà la sua fama è affidata soprattutto al magistero del pensiero, costantemente illuminato da una profonda riflessione sulla storia e il senso della vita.
La produzione della Zambrano, sparsa in articoli, saggi e libri, alcuni usciti postumi, affronta problematiche che indagano sul tema della Spagna moderna, sulle ragioni dell’essere e del destino umano. Filosofia «poetante», è stato scritto, in cui è possibile vedere il segno dell’eterno femminino che racchiude - commenta Massimo Cacciari - il «senso del patire anteriore a ogni logos». Grandi libri come Filosofia e poesia (1939), Verso un sapere dell’anima (1950), Persona e democrazia (1958), La tomba di Antigone (1967) intrecciano diversi metodi d’indagine, privilegiando quali stimoli della ricerca aspetti e motivi frammentari. Orientamento che si conferma nell’opera L’uomo e il divino (1954), dove la filosofia diviene una via di accesso che consente al pensiero di illuminare ciò che è ancora oscuro e ignoto: la scrittrice andalusa, che con il tempo si allontana dal rigore sistematico della filosofia orteghiana, fa proprio un pensiero basato sull’intuizione, contro la logica del concetto che esclude la presenza del mistero.
La Spagna di Galdós ribadisce la grande considerazione della Zambrano per il maestro della narrativa spagnola dell’Ottocento, autore dei libri Misericordia e Tristana, da cui Buñuel ha tratto il celebre film, e ai quali è diretta la lettura della nostra scrittrice. María condivide l’amore di Galdós per la moltitudine anonima, colta nelle vite di personaggi umili e generosi; in particolare, la sua predilezione va alle figure femminili (Nina di Misericordia e Tristana del racconto anonimo), protagoniste indimenticabili delle trame che girano attorno alle loro persone. È una Spagna, quella ritratta dal primo romanzo, immersa nella vecchia Madrid dei quartieri popolari e rumorosi dell’epoca, che assume i caratteri amorfi della moltitudine brulicante aperta a ogni manifestazione umana, sonora e fluente come un corso d’acqua. Se l’esistenza pesa - osserva l’autrice - l’acqua è invece leggera e tende a espandersi, a donarsi, come fa Nina con la sua signora e con tutti gli altri; sempre prodiga e generosa, essa lava e purifica con la sua bontà ogni bruttura lasciata dalla società.
Nina, Tristana e le altre protagoniste dell’opera galdosiana sono per la Zambrano creature vive che riscattano la loro storia dall’anonimato elevando la persona e la condizione umana. È quanto accade anche a Don Chisciotte che, nel raccontare le sue avventure, si emancipa dall’ambiguità del personaggio. Si chiede infatti la scrittrice: la storia non è forse un romanzo? Non è un romanzo l’avventura della vita, la vita di ciascuno di noi, come diceva Ortega y Gasset? María rilegge attentamente le due opere di Galdós, esplora le sue complesse figure femminili, in cui vede riflessa la condizione tragica dell’uomo che «soffre la sua trascendenza» attraverso la prova dell’esperienza vitale.
Diverso per contenuto e struttura è il secondo libro, Per abitare l’esilio, che riunisce l’intera produzione della Zambrano pubblicata in Italia, e a cui occorre aggiungere gli appunti riuniti nei Frammenti dei Quaderni del Caffè Greco del periodo romano, usciti nel 2004 per conto dell’Instituto Cervantes. Gran parte degli scritti appaiono nella nostra lingua e traduttori sono stati gli intellettuali legati all’entourage culturale dell’esule spagnola, fra i quali si distingue, accanto a Elémire Zolla, Cristina Campo e Francesco Tentori Montalto, la sua grande amica e ammiratrice Elena Croce, figlia del filosofo. Non a caso uno dei saggi è dedicato a Benedetto Croce, autore che la scrittrice andalusa associa, quale esempio di simbiosi con la polis mediterranea traboccante vitalità, al contesto della città di Napoli, sede di vita intensa e fervente attività culturale. Per María il filosofo italiano è uno degli ultimi grandi pensatori europei che, paradossalmente, «con la loro scomparsa chiudono uno spazio aperto».
Un capitolo a parte è dedicato a Ortega y Gasset e alla sua filosofia della «ragione vitale», dove la solerte discepola ripercorre, valendosi del rapporto vissuto con il maestro, le tappe evolutive del suo pensiero. Illuminante è soprattutto il saggio che indaga sull’opera di San Giovanni della Croce; qui ritroviamo, esemplato dalla visione espressa dal mistico spagnolo, uno dei cardini dell’ermeneutica della Zambrano che, dissociandosi dal metodo cartesiano di una ricerca sistematica, si affida alla forza trainante dell’intuizione, della parola indifferente a ogni remora imposta dal raziocinio e quindi capace di annullarsi (il termine corretto è «disfarsi»), di liberarsi del peso interiore in modo che la realtà penetri in noi «poeticamente e indistintamente». L’atto rigenerante di svuotare la nostra vita dall’ingombro del passato non vuol dire distruggere la sua intima essenza, ma aprire la mente e il cuore alla voce suprema dell’ineffabile: conquista spirituale che la parola poetica - in particolare quella ispirata del mistico - raggiunge pienamente. Il santo ne è l’esempio più alto: la sua rinuncia al mondo («annichilimento animico», lo chiama la scrittrice) non nasce da un bisogno reale di conoscenza, bensì dalla necessità espressa dal sentimento d’amore che anela all’unione con Dio.
«Quale meraviglia - si chiede allora María - che l’amore abbia quasi sempre preferito la via poetica a quella filosofica?». Per lei è sempre stato così: più che filosofa, è una geniale profetessa attratta dall’oracolo della parola, della lingua che illumina le zone oscure del nostro essere.

La lingua, osserva Francisco José Martín, fu la sua vera patria, l’unica che l’esilio non riuscì a toglierle, abituandola, come recita il titolo del libro, ad «abitare», a dialogare con il silenzio nel lungo tempo in cui visse lontana dall’amata Spagna.

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