
A uno scrittore famoso, laico e ateo, moderno e civilmente impegnato, viene offerta la possibilità di scrivere un libro sul Papa. Non una biografia, ma una sorta di confronto e se si vuole di scontro e dove l'oggetto del contendere è non tanto e non solo la fede, ma ciò che quest'ultima promette, la resurrezione e la vita eterna. È quanto l'anziana e malata madre dello scrittore ha sempre creduto, senza nessun appiglio teologico e nessun approfondimento dottrinario, ed è ciò che suo figlio non ha mai potuto capire e quindi ammettere. Così per lui il fine ultimo di quell'incontro è avere dal Pontefice, ovvero Papa Francesco, «il folle di Dio» come il santo da cui ha preso il nome, una risposta da riportare a quella madre, una sorta di conferma «divina» alla sua fede di semplice quanto unica donna cattolica...
Questo è in estrema sintesi quanto Il folle di Dio alla fine del mondo, di Javier Cercas (Guanda, pagg. 459, euro 20, traduzione di Bruno Arpaia) racconta, un libro sincero e a tratti commovente, molto ben costruito, ben scritto e ben argomentato, e dove dietro il Pontefice in quanto soggetto e insieme oggetto della scrittura, c'è naturalmente Javier Cercas nella sua qualità di deuteragonista e insieme di protagonista, «il folle senza Dio», secondo la sua stessa definizione, e come tale per nulla disposto ad abbassare la guardia...
L'ateismo di Cercas è il naturale effetto del suo anticlericalismo, l'anticlericalismo di uno scrittore spagnolo e progressista per nulla disposto a dimenticare il ruolo che la Chiesa ebbe nel suo appoggiare il franchismo. Più in generale, il suo essere anticlericale vuol dire essere contro l'apparato della Chiesa, la sua pompa e il suo sfarzo, l'idea più o meno espressa di una superiorità del sacerdote rispetto al gregge dei fedeli, l'uso politico della religione, il fastidio per un linguaggio che non ha saputo evolversi nel tempo, «vecchio, ossidato, kitsch e a volte incomprensibile» e che quindi non ce la fa a dare una risposta a quanto ci circonda. Sono tutte osservazioni interessanti, anche se ho l'impressione che la madre di Javier Cercas non gli presterebbe molta attenzione. A Cercas sfugge o non interessa che c'è una sacralità, un indicibile, un mistero, un rito, dei dogmi, una sacra rappresentazione e che se ci si confessa a un sacerdote è perché, in quella sua specifica funzione, è superiore a noi, è il tramite verso il divino cui indirizziamo il nostro pentimento e la nostra preghiera. Se non fosse così, ci confesseremmo dal tabaccaio, allo stesso modo con cui il prete, smettendo di vestirsi da prete per assomigliare a un posteggiatore, non innalza quest'ultimo, ma abbassa sé stesso. In breve, quella forma, nel grande come nel piccolo, nello sfarzo della porpora come nella nudità della cella monacale, è una sostanza, rimanda a un'essenza, qualcosa che nei secoli si è trasmessa... Anche la critica del linguaggio, la sua non modernità che per Cercas è la prova di una decadenza e/o incapacità di affrontare il mondo moderno, suscita qualche perplessità. Non sono un esperto, ma a occhio nessuna religione, monoteista, politeista o atea che sia, ha mai sottoposto la sua parola al lavaggio-lavacro della modernità o comunque non è mai stata una sua priorità.
Più interessante, semmai, è l'osservazione di Cercas che, a differenza dell'Asia, che non ha conosciuto l'illuminismo e dove quindi fede e ragione non si sono mai scontrate, l'Europa, «per gli effetti dell'illuminismo e del costantinismo, non è più il centro della cristianità, come lo è stato per secoli; è un continente laico, come minimo agnostico, se non ateo». Questo spiega altresì il paradosso di una Chiesa cattolica, apostolica, romana, dove il sacerdozio è sempre più extraeuropeo, così come del resto il suo gregge di fedeli... Ma pone anche qualche interrogativo su quanto la ragione, nel suo intrecciarsi con la scienza e con la tecnica, sia in grado di riempire quel vuoto che la messa in discussione della fede, «la morte di Dio», ha prodotto.
Tutto ciò porta al tema di fondo che anima il libro, la sensazione che la Chiesa tenda a essere, ma anche che tenda a essere così concepita, come un gigantesco ospedale da campo, una Ong, planetaria se si vuole, il cui compito è di alleviare le sofferenze, soccorrere i più deboli, eccetera. È un tipico effetto della secolarizzazione, che da un lato mette la sordina al «regno dei cieli», quando non lo dimentica completamente, e dall'altro porta il regno dei cieli sulla terra, lo vuole qui e subito. La cosiddetta «teologia della liberazione», i «preti guerriglieri», per intenderci, tipica dell'America latina della seconda metà del Novecento, fu in tal senso uno dei fenomeni più radicali, nonché più sanguinosi. Ma, come puntualizza Cercas, «questa Chiesa è anche e soprattutto la Chiesa di Cristo», ovvero «la casa inconcepibile di Dio»: non un «mondo migliore», ma «qualcosa di insuperabile, infinitamente migliore del migliore dei mondi: la resurrezione della carne e la vita eterna»... Il risultato di questo processo di secolarizzazione è l'incapacità o la non volontà di vedere una religione e una fede se non con gli occhi, meglio, i paraocchi, della politica, l'unico strumento a disposizione in un mondo che ha perso di vista il trascendente. Come mette bene in evidenza Cercas, «il paradosso è che la religione (che è cosa essenziale, il nucleo da cui sgorga il potere del Papa) praticamente scompare dallo spazio pubblico, nei mezzi di comunicazione: lì, la religione non si cita quasi, come se non esistesse».
Non è un caso se sui mass media Francesco venga definito ora di destra e ora di sinistra, se i concili, come i conclavi, vengano analizzati secondo tipologie della scienza politica, con chi ne fa parte suddiviso in conservatore, reazionario, liberale, progressista... Si dirà, la Chiesa è fatta di persone, è umana quindi, con le sue grandezze e le sue miserie... Ma se fosse solo così o soprattutto così, sarebbe un partito, se i partiti esistessero ancora, o una bocciofila, idem come sopra. La Chiesa però è divina, anche se lo abbiamo dimenticato e, come ci ricorda in conclusione del suo libro Cercas, la sua promessa «è la promessa di Cristo: il presagio raggiante dell'amore illimitato, della resurrezione della carne e della vita eterna. Sono caduti tutti i poteri, tutti i sovrani, tutti i regni e tutti gli imperi; però dopo duemila anni di storia, la chiesa cattolica è ancora in piedi: quella promessa ha dimostrato di essere indistruttibile, più potente di tutti gli eserciti uniti. Se credessi nei miracoli, crederei che questo è un miracolo».
È questa una conclusione quasi in controtendenza rispetto a quanto lungo le oltre quattrocento pagine Cercas è andato raccontando, la decristianizzazione dell'Occidente, le chiese vuote, gli scandali, l'abitudine che sostituisce la fede, il clericalismo come rendita di potere, un insieme che lo ha portato, per quanto ironicamente, al grido liberatorio: «Tutti missionari. Il Papa ha ragione: il cristiano che non è un missionario non è un cristiano. Quando tutti i cristiani saranno come voi saranno finiti i problemi della Chiesa»... E però è sempre lo stesso Cercas, durante l'ultima messa del Papa in Mongolia, a notare che uno di quei missionari lì conosciuti pochi giorni prima, «la sua santa ira e la sua furia vendicatrice», il suo disprezzo per la Chiesa come «banda di fannulloni», se ne sta ora, «il corpo refrattario e tarchiato sotto la pianeta verde e l'alba sacerdotale» ad ascoltare «Francesco con devozione», «un atto di sottomissione che mi risulta un atto di eroismo», il suo «eccesso di ribellione dell'altra sera soffocato dall'autorità del successore di Pietro e dalla volontà di Dio». E insomma, i missionari non sono dei tanti dottor Schweitzer e la Chiesa è qualcosa di più grande del Vaticano.
Lo spirito missionario, che è un po' un tutt'uno con lo stile di vita e il modo di intendere la fede che è di Papa Francesco, è perfettamente in linea con quella Chiesa dei deboli, dei poveri e degli ultimi così presente nel suo pontificato e che, lo abbiamo appena visto, è il tipo di chiesa preferita dall'anticlericale e ateo Javier Cercas. Non saremo certo noi a dire al Papa se sia quello il tipo di Chiesa giusto, ma varrà la pena far notare a Cercas che quella sua preferenza è intrinseca al suo anticlericalismo, lasciando da parte per un momento il suo ateismo. È cioè l'effetto di una riflessione colta, intellettualmente nutrita di letture sul tema, così come di idiosincrasie e appassionata moralità: il fastidio e il disprezzo per gli ori e le ricchezze della Chiesa, le malefatte dello Ior, gli scandali sessuali con la pedofilia in primo piano, la teocrazia, eccetera. E tuttavia un'anima semplice e credente com'è quella di sua madre, così dolcemente accennata nel libro, non ha alcun dubbio nel cercarvi conforto.
Non perché non sia in grado di vederne le pecche e i limiti, ma perché non sono essi a contare, ma la fede, «la proverbiale fede cieca», si sorprende a constatare lo stesso Cercas, quella fede con cui la madre è convinta che, una volta morta, rivedrà il marito così tanto amato. La stessa «fede cieca» con cui Papa Francesco replica alla sua domanda se quella certezza di sua madre abbia fondamento. «Senza alcun dubbio» gli risponde. E non c'è nient'altro da aggiungere.
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