
In La Montagna a Saint-Remy di Vincent Van Gogh la montagna c'è, ma diventa un gioco della mente del pittore. Van Gogh non guarda la realtà, sente che dentro la realtà c'è un cortocircuito di forme, che sono le forme che lui ha dentro di sé.
La natura è il teatro dei suoi pensieri, e non può avere niente di naturalistico, niente di reale, niente di fisico: è una natura come proiezione di uno stato d'animo. Questo è l'Espressionismo: far sentire che la natura, gli oggetti animati e inanimati sono veicoli di emozioni, come accade nel cielo rosso e azzurro del celebre Urlo di Munch, dove la strada e il cielo sono la proiezione dell'angoscia del personaggio che urla in primo piano. La Montagna a Saint-Remy è un urlo contenuto, isolato, di Van Gogh. In un quadro come Campo di grano con volo di corvi, Van Gogh mette in scena un idillio senza idillio. Il dipinto mostra una divisione molto netta. La linea dell'orizzonte delimita l'estensione del campo di grano dal cielo azzurro. Un azzurro che tende al blu carico, come se un turbamento della psiche si trasmettesse alla natura, e la perturbasse. Tra il campo giallo e il cielo, al centro, si stende una strada, un cammino, un tratturo, che indirizza verso il limitare dell'orizzonte. Ma è un sentiero che non porta a nulla.
Per quella via non si va da nessuna parte. È un viaggio al termine della notte, un viaggio al confine della coscienza, ai suoi limiti estremi. Lungo quella strada il viandante non avrà compagni, e in fondo non esiste neppure una destinazione. Nella divisione in due fasce orizzontali Van Gogh inserisce questo taglio, questa ferita, questa strada obbligata e dalla meta oscura. È l'unica strada, è necessario percorrerla, ma non c'è possibilità di decidere altrimenti. Non c'è ragione. Se a qualcosa essa conduce è a un luogo di morte: contro quel cielo, infatti, su quel campo di grano, si stampano le ombre, le impronte di corvi, presagio di una morte su cui essi riversano la loro spinta maligna e malefica.
Prevale la componente simbolica, dunque. Non stiamo semplicemente guardando un campo di grano contro un cielo, attraversato da un volo di corvi, ma il tormento di una mente e l'attesa della morte.
La pittura di Van Gogh rinuncia alla leggerezza del colore, della trasparenza luminosa. È una pittura corposa, spessa, materica, la cui densità restituisce l'alterazione delle tonalità emotive, il delirio, in senso letterale, l'impossibilità di stare dentro un ordine, degli stati d'animo.
Un critico malevolo commentava che il colore sembra spremuto direttamente dal tubetto, ma in realtà è spremuto direttamente dall'anima, che si svuota sulla tela, una Kenosis laica, anzi atea.
Van Gogh non dipinge la realtà di un paesaggio, di un cielo, ma la propria condizione interiore. L'elemento naturale diventa un pretesto per riversarvi il proprio disagio. Anche in una situazione di apertura, di libertà e possibilità, di orizzonti lunghi e profondi, come in un campo con alcuni fiori, avvertiamo una sensazione di potente e strisciante oppressione esistenziale. Ci sentiamo costretti, schiacciati, compressi, e nel rischio e nel pericolo che i corvi stiano aspettando proprio noi. Girano intorno alla nostra testa, come le mosche che ossessionavano Guy de Maupassant nel racconto Mosca, del 1890, stesso anno di morte di Van Gogh. Fatali coincidenze.
Non sono corvi reali, come non lo sono le mosche di Maupassant, ma il riferimento a un tormento, a un disturbo della mente. Alla follia.
Questo capolavoro, Campo di grano con volo di corvi, è in realtà l'espressione della follia. È un quadro che non ci dà pace, che non ci comunica la serenità che il soggetto rappresentato dovrebbe offrirci, e che sempre, nella storia della pittura, ci ha offerto.
In Montagna a Saint-Remy o in Campo di grano con
volo di corvi, la natura è matrigna, crudele, fa male e ferisce. Ha dentro di sé spinte malefiche. Di questo male Van Gogh è il pittore più grande, dipinge il male di vivere, perché «Spesso il male di vivere ho incontrato».