Cemento, derby e Bob Marley. Si chiude il secolo dello stadio diventato luogo del cuore

Inaugurato nel 1926, è entrato nell’anima di generazioni di milanesi tra partite e concerti. Demolirlo è necessario? Forse, ma è un lutto

Cemento, derby e Bob Marley. Si chiude il secolo dello stadio diventato luogo del cuore
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Lo hanno riempito quando i posti non erano numerati e nel gelo di gennaio si stava in centomila pigiati nel paltò, a scaldarsi con il Borghetti. Lo hanno riempito quando è diventato una cattedrale brutalista, con quegli undici torrioni a metà fra i bastioni di un castello e le zampe di un'astronave aliena. Lo riempiranno quando aprirà i battenti la nuova versione «archistareggiante» scelta da Milan e Inter. Ma che oggi si sia chiusa la storia dello stadio Giuseppe Meazza, per tutti San Siro, è un fatto e un lutto. Sportivo, culturale, identitario e transgenerazionale. Da elaborare, certo, ma pur sempre lutto.

D'altronde in un secolo di cose ne sono capitate, qui. Voluto da Piero Pirelli, allora presidente del Milan, come impianto «all'inglese» dove far giocare i rossoneri, viene inaugurato nel 1926, con quattro tribune che sovrastano uffici, scuderie e fienili. I cavalli dove ora i vip parcheggiano le Porsche. Dopo che la Nazionale ci gioca la semifinale mondiale del 1934 viene acquistato dal Comune e poi, nel 1947, diventa anche la casa dell'Inter. È però negli anni '60, quando le squadre di Milano dominano la Coppa Campioni, che San Siro subisce una metamorfosi e da stadio diventa mito, la Scala del calcio, un luogo dell'anima per casciavit e bauscia, una specie di Atlantide in cui ogni tifoso rossonerazzurro ha vissuto momenti indissolubilmente legati con la sua storia personale. Di padre in figlio o con gli amici di una vita, a perdere la voce per un gol.

Neppure la ristrutturazione e il terzo anello aggiunto per quei Mondiali di Italia '90 (che qui si aprono con l'incornata di Omam-Biyik che regala al Camerun uno storico successo sull'Argentina campione in carica) riesce a smorzare il fascino di San Siro. E anche se chi qui tifava Rivera e Mazzola storce il naso, il restyling non spegne lo stupore quasi mistico che esplode nel cuore di chi arriva da piazzale Lotto appena vede la sua mastodontica sagoma stagliarsi all'orizzonte. Non è tanto per una questione storica, dato che è solo il quinto stadio più vecchio d'Italia per attività. Non è solo questione estetica, ché il cemento oggigiorno per qualcuno ha perso poesia. Il fatto è che non esiste uno stadio con lo stesso portato sentimentale. Per lo sport, certo, perché qui si sono festeggiati scudetti e si è pianto per eliminazioni e retrocessioni, si sono lanciati motorini dagli spalti e si sono perfino tifati gli All Blacks nel test match Italia-Nuova Zelanda di rugby, ma non solo per lo sport.

La musica, ad esempio, deve tanto a questo parallelepipedo che aspetta la sua demolizione. «Luci a San Siro di quella sera/ che c'è di strano siamo stati tutti là», cantava Vecchioni, rimpiangendo la sua giovinezza perduta che profumava di erba e nebbia. Ma San Siro è stato anche il palco di Vasco Rossi e dei Rolling Stones, di Bob Dylan e Michael Jackson, il «nido» di Bruce Springsteen in Italia dal primo leggendario show del 1985 e soprattutto il luogo dove in centomila arrivarono per Bob Marley nel concerto più seguito della carriera del padre del reggae. In una città in cui non si sa neppure il nome del vicino di pianerottolo e al posto delle librerie aprono pokè, San Siro è stato anche un monumento umano alla socialità.

Tutto questo finisce, come ineluttabilmente finiscono le adolescenze e le canzoni. Rimangono i ricordi, e quelli neanche un piano regolatore li può portare via. Hanno cambiato Wembley a Londra, dove Bobby Moore alzò la Coppa Rimet e Freddie Mercury tenne il concerto più da brividi della storia del rock, cambieranno anche San Siro. Lo chiedono i club, lo impone il progresso che ha il pessimo vizio di brutalizzare la nostalgia a colpi di dati economici. Non morirà nessuno, ci mancherebbe. Morirà giusto una parte di noi, quella che sente una fitta al cuore se con l'addio a un simbolo avverte lo squarcio del tempo che passa e non ritorna, quella che qui è stata giovane e - nel bene e nel male - ha vissuto capitoli di vita autentica.

Le luci a San Siro si accenderanno ancora, e forse saranno pure più scintillanti, ma se pensiamo alle ruspe, è un altro verso di Vecchioni che ci viene in mente: «Milano mia, portami via/ fa tanto freddo e schifo e non ne posso più».

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