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Trabant, quella regina di plastica nell’ex DDR

Nata nel 1957, era composta con materiali economici. Decisamente poco seducente, eppure irrinunciabile: storia di un matrimonio combinato mai decollato

Trabant, una regina di plastica per l’ex DDR
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Non è che da queste parti ci sia poi molto da meditare. Se vivi nella porzione est della Germania ed è ancora il 1957, gli unici sogni su quattro ruote che puoi indurti fanno rima con una deludente sobrietà. L’egida comunista ha derubricato da tempo le auto a mero mezzo per spostarsi da una parte all’altra del paese. Al bando i vezzi. Dall’altro lato del muro luccicano le ruggenti creature di Mercedes Benz , Porsche e BMW. Bagliori che si possono soltanto intravedere. Di qua la realtà racconta un mortificante dualismo: il costruttore Wartburg, per sellare la Nomenklatura e l'umile Sachsenring per limare gli appetiti del popolo. Con una pietanza da bettola di periferia, s’intende.

Trabant, una regina di plastica per la gente comune

A Zwickau fremono per svelare la nuova arrivata. Ma quando il panno che la occulta viene sollevato, in pochi si spellano le mani. Quelli della Sachsenring sono interdetti per la tiepida accoglienza. Si grattano le tempie preoccupati, ma poi l’ansia scema in fretta, squagliata da un’inappuntabile considerazione: non ci sono alternative per chi non ha palanche. O la nostra auto, o a piedi. La chiamano Trabant, che poi vorrebbe dire “satellite”, inchino generoso all’impresa dello Sputnik sovietico. È piccola, sobria allo spasmo, appuntita: pare che l’abbiano tagliata con l’accetta. L’impatto estetico è deprimente, ma questo passa la casa. Non va molto meglio sotto il cofano: la primissima versione, la P50, monta un modesto motore a due tempi da appena 50 cm³. Andatura massima toccata? Novantacinque km/h. Ma c’è un motivo.

Trabant 2
La Trabant in una discutibile variante di colore

Fatta della stessa sostanza del Duroplast

Perché incedere così lentamente? Facile. Il fatto è che se esageri con il pedale la Trabant si spezza. E chi la conduce di conseguenza. Gli ingegneri che la progettano sono infatti demiurghi low cost: recuperano strati di lana e cotone inutilizzati, li impregnano di resina e brevettano un nuovo materiale. Il Duroplast. Roba che abbatte drasticamente i costi di produzione, ma fa anche collassare le misure di sicurezza. Se sbatti a velocità moderata quell’intruglio assorbe l’urto. Se sfrecci eccessivamente e impatti contro un ostacolo, si sbriciola. Sembra una storia destinata ad esaurirsi in fretta. La Trabant però smentisce i pronostici, solcando i nastri d’asfalto tedeschi fin dopo la caduta del muro di Berlino. La produzione cesserà soltanto nel 1990. Impensabile per quell’arnese impastato di materiali riciclati.

Quella nube di fumo ad ogni accelerata

Per le versioni successive gli uomini che sussurrano alle Trabant osano qualcosa di più. La 601, il modello che tiene botta fino al ’90, monta 22 CV e sprinta fino ai 112km/h. Per raggiungere la fatidica quota cento, quando è lanciata nelle pianure germaniche, impiega ancora un’eternità: trenta secondi netti. Un tempo sufficiente per generare quella tossica cortina di fumo scuro che diventa ulteriore tratto distintivo nell’immaginario comune. Così le strade dell’ex Repubblica democratica tedesca si intridono di allappante fuliggine. La gente è stanca di quel matrimonio combinato, ma il portafogli che langue penosamente disarma ogni ulteriore velleità. Uomini semplici, macchine semplici. Non c’è altra strada. Il popolo reclina il capo e si mette rumorosamente al volante.

La Trabant diva del Cinema e icona per gli U2

La retorica che si incolla sull’abitacolo delle Trabant diventa ben presto narrativa popolare. Quelle macchine oggettivamente incapaci di sedurre assurgono a rappresentazione plastica – in tutti i sensi – del senso di frustrazione di chi fatica a sbarcare il lunario. È un misto tra comica autoironia e potente malinconia per quel che potebbe essere, ma non sarà. La Trabant diventa il veicolo per eccellenza dei vinti, dei reietti, ma anche di chi si rifiuta di allinearsi ai dogmi del consumo e dell’esteriorità a tutti i costi. Il cinema ne fa così la sua musa. Spunta nel film “Goodbye Lenin”, nell’esilarante sequenza che vede la mamma di Alex stupirsi perché il modello che aveva ordinato è stato consegnato dopo appena tre anni di attesa. È centrale in “Ogni cosa è illuminata”, essendo la vettura con cui i protagonisti attraversano l’Ucraina. Appare anche in pellicole di Emir Kusturica e Ian Black. Dalla settima arte alla musica: nel 92’ viene usata come scenografia nel tour degli U2.

Goodbye Lenin Trabant
L'abitacolo della Trabant con i protagonisti di "Goodbye Lenin"

Quel ritorno di fiamma: dagli appassionati di vintage all’Islanda

La riunificazione della Germania rende rapidamente anacronistica la Trabant. Le case automobilistiche dell’ex parte ovest fagocitano la scena e il modello svanisce gradualmente. C’è, tuttavia, ancora oggi la possibilità di vederle circolare. Alcuni esemplari scorrazzano in paesi dell’est come Ungheria, Bulgaria, Romania e Moldavia. Negli ultimi anni, inoltre, un potente reflusso vintage ha portato decine di collezionisti ad accaparrarsi almeno una di queste vetture.

Infine, non c’è da stupirsi se una volta atterrati in Islanda le Trabant si moltiplicheranno come in una surreale visione: da quelle parti ne hanno fatto incetta per le doti di stabilità e resistenza su percorsi ostici, destinati ad essere lavorati lentamente.

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