Avvolti nella nebbia di Annie Ernaux tra frasi fatte e ira repressa

Bur avvia la pubblicazione dell'autrice francese con tre romanzi. Deludenti...

Avvolti nella nebbia di Annie Ernaux tra frasi fatte e ira repressa

Annie Ernaux ha scritto: «Mi è sembrato che la scrittura dovesse mirare a questo, la stessa impressione suscitata dalla scena dell'atto sessuale, quell'angoscia e quello stupore, una sospensione del giudizio morale». Riflessione giunta d'estate, diversi anni fa: stava guardando «per la prima volta un film vietato ai minori». È l'attacco di Passione semplice (pagg. 80, euro 11): il romanzo, uscito in origine per Gallimard nel 1992, tradotto quello stesso anno da Idolina Landolfi per Rizzoli, ritorna, in nuova versione quella di Lorenzo Flabbi , inaugurando la pubblicazione dei romanzi di Annie Ernaux altrimenti editi da L'Orma, la casa editrice diretta da Flabbi per la Bur.

Il libro racconta, senza troppo brio, l'amorazzo tra la narratrice e un bruto straniero, diligentemente lascivo, ubriaco a momenti, sposato con un'altra. Un dettaglio la vittoria di Michael Chang al Roland Garros, dopo epica partita contro Stefan Edberg ci fa collocare la fuitina intorno al 1989. Il romanzo di vertiginosa pochezza, spocchiosamente vaginale, brevissimo si limita a dire, con scarsità di mezzi, l'ossessione della signora per l'occasionale amante: siamo nei dintorni di Grand Hotel e di Dipiù più che di Ultimo tango a Parigi forse è questa la ragione del suo successo. La scrittura, a tratti, è comica («Una volta, a pancia in giù, mi sono fatta godere, mi è sembrato che l'orgasmo fosse il suo»); i concetti d'adolescente in estro («Ero attratta dalle statue di uomini nudi. In esse ritrovavo la forma delle spalle, del ventre, del sesso di A... Non riuscivo ad allontanarmi dal David di Michelangelo, colpita in maniera persino dolorosa dal fatto che fosse stato un uomo, e non una donna, ad aver celebrato in maniera tanto sublime la bellezza del corpo maschile») finiscono per ammosciare il lettore voyeur. Di sesso ce n'è poco, pochissimo; su tutto aleggia un afrore di bassa scaltrezza, di matriarcato in guêpière, la levità di una sveltina, insomma. Semplicemente, Passione semplice si legge come si continua a guardare Domenica In, museo delle cere di orrorifica longevità; la Ernaux, d'altronde, ha inventato un nuovo genere: l'epica del patetico. A un certo punto, la narratrice cita Vita e destino: libro buono, tra i tanti, «per far passare il tempo tra un incontro e l'altro», tra una scopata e l'altra. Tempo sprecato, si direbbe: Vasilij Grossman insegna a forgiare personaggi abissali; quelli della Ernaux restano ombre, mere larve che ballano intorno al suo io-Circe, circense; la scrittura non è diversa da quella di Valérie Perrin, la moglie di Claude Lelouch, l'autrice di Cambiare l'acqua ai fiori. Al loro cospetto, Marguerite Duras pare Proust.

Quanto agli altri romanzi della Ernaux, L'evento (pagg. 128, euro 13) e La donna gelata (pagg. 272, euro 14), il primo racconta l'aborto dell'autrice, realizzato tra atroci difficoltà, l'altro l'atroce difficoltà di essere moglie & madre, al giogo di una civiltà patriarcale che costringe le donne ai fornelli, alla lavatrice, allo stallatico del tempo che passa. Entrambi riproducono la traduzione di Lorenzo Flabbi già pubblicata da L'Orma (le introduzioni, di Nicola Lagioia e di Chiara Tagliaferri, sono diversamente irrilevanti). Entrambi sono utili per capire l'equivoco della scrittura di Annie Ernaux. Prendiamo L'evento, più interessante, per lo meno per l'entità del tema. Il libro come sempre pigmeo, poco più di cento pagine, un romanzo liofilizzato, un romanzo androgino comincia per davvero a pagina 56, con questa frase: «La mattina dopo mi sono stesa sul letto e mi sono infilata il ferro da maglia nel sesso, piano piano». Da lì uno scrittore avrebbe approfondito la catabasi nell'indicibile del dare la vita e del conferire la morte, in quel bolo di abulia tra la scelta estrema e il mondo d'acciaio attorno, muto, immutato. Invece, l'autrice resta sulla soglia del baratro, non lo sfida, bara, ci sfianca con buone intenzioni verbali, segno, se non di malizia di cattivo gusto. «Se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo». Vai fino in fondo, allora, Annie! Vacci per davvero! Sfonda lo sfondo delle sibilline ipocrisie, delle chiocce pettegole; spezza gli ormeggi della cronaca letteraria, spacca tutto, spaccaci! Invece niente, se non un turpe turpiloquio di nebbie, letterario turlupinare di frasi fatte, di tiepidi fatti.

È il solito, ingenuo inganno: si crede che basti scrivere qualcosa perché questa cosa esista, senza esitazioni. In letteratura non va così. In letteratura la cosa esiste se, senza esitare, le si presta cura, dedizione, smodato amore. Il mero elenco di fatti accaduti intorno all'esperienza dell'aborto non fa esistere quell'aborto: al contrario, spinge l'aborto in una zona grigia, lontana, anaffettiva, asettica. Letterariamente inerme. Quando si scrive, ciò che esiste non è che un tralcio di marmo: allo scrittore il compito di trarre una Pietà, un Apollo e Dafne, un dito medio. Cioè: rendere leggero il grave, renderlo leggiadro illegittimo perfino illecito addirittura.

Annie Ernaux non riesce nel prodigio: il marmo resta marmo e sbriciola la pazienza illetterata del lettore. A differenza per intenderci di Ágota Kristóf, in Annie Ernaux l'apparente semplicità, il micidiale grigiore dello scritto, non diventa mai stile, bensì posa, quando non sciatteria. Bigiotteria del linguaggio. Le movenze da arpia femminista de La donna gelata non meritano troppi commenti, di rado la recriminazione diventa letteratura. Philippe Ernaux, a cui è dedicato il libro, ha mollato Annie anni fa, nel 1981. Il romanzo è un ricettario di frasi già sentite, ad uso della donna di mondo; questa ad esempio: «Perché tra noi due sono l'unica a dover procedere per tentativi, brancolando tra i tempi di cottura del pollo e i semini del cetriolo da togliere o tenere, l'unica a scartabellare un libro di ricette, pelare carote, e per di più a lavare i piatti dopo cena, mentre lui si rimette a studiare diritto costituzionale? In nome di quale superiorità?».

Cristina Campo si esprimeva diversamente: ad Alejandra Pizarnik, la poetessa argentina, era il 1965 Annie si era sposata l'anno prima scrive che «preparando torte, lavando le stoviglie, prendendosi cura degli altri», cioè praticando «la grande arte della vita comune», i grandi scrittori accedono a «un ordine differente, il più alto e il più pericoloso di tutti... sopra l'abisso spalancato della follia e della morte».

Annie non potrebbe capire. Il suo io la lei che scrive libri è un io ispido, senza ispirazione; i romanzi sono retti dall'ira, un'ira bassa, irritante, rattenuta.

Non si tratta dell'ira bella, iliadica, che fa scrivere libri ferini, indimenticabili. È l'ira-colibrì, l'ira-faina, contro i maschi, contro i preti, contro i bimbi, contro Dio, un'ira che non è corroborante ma corrode il libro, un colabrodo di rancori.

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