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La vera sfida aperta da Svb: la crisi del Big Tech

Svb mostra agli Usa la vera crisi da temere: quella di un problema strutturale del Big Tech. Incapace di capire la svolta su tassi e inflazione

La vera sfida aperta da Svb: la crisi del Big Tech

Il crollo della Silicon Valley Bank (Svb), sedicesima per dimensione negli Usa fino alla scorsa settimana, è stato un momento rivelatore di ampio respiro per la finanza americana. E più ancora dell'effetto-cascata che ha portato al crollo di un altro istituto, Signature Bank, e a un'ondata ribassista mondiale sulle borse in apertura nella giornata di ieri il tema forte da tenere sotto controllo è quello della crisi strutturale del Big Tech a stelle e strisce.

Svb non era una banca dedita a pericolose alchimie finanziarie o un istituto esposto su pericolosissime scommesse in derivati tossici o prodotti del genere. Era invece una banca di raccolta al servizio dell'ecosistema di start-up finanziate dal venture capital nella Silicon Valley, aspiranti unicorni miliardari che a Svb si affidavano per i flussi di cassa necessari all'attività ordinaria: investimenti, pagamento di stipendi, difesa dei depositi. Il crollo, originato dall'azzeramento sostanziale della credibilità della banca per il tonfo delle obbligazioni pubbliche detenute, ha messo a rischio l'ordinarietà di questi processi fino a ché non sono intervenuti i regolatori pubblici: il Tesoro Usa, la Federal Reserve e la Federal Deposit Insurance Corporation istituita novant'anni fa con il Glass-Steagall Act, la legge bancaria di Franklin Delano Roosevelt.

Le parole di Joe Biden di ieri aiutano a capire come il timore percepito dei decisori sia per una crisi strutturale del settore tecnologico più che per la minaccia di un effetto-contagio finanziario: Biden ha tenuto a sottolineare che Tesoro, Fed e Fdic assicureranno i depositi e non gli investitori per permettere alle aziende che hanno avuto depositi presso Svb di continuare a operare. E tamponare una crisi di fiducia del Big Tech oramai strutturale.

Svb, come il Big Tech Usa, ha pagato la corsa al rialzo dell'inflazione e il conseguente giro di vite della Fed sui tassi che ha posto fine al periodo di vacche grasse alimentato dal denaro facile dell'ultimo decennio. Le grandi corporation della Silicon Valley hanno iniziato a dover far quadrare i conti e hanno scoperto la spinta ai licenziamenti di massa dei dipendenti e una contrazione degli utili delle cinque maggiori compagnie (Apple, Amazon, Meta, Microsoft, Alphabet) di quasi il 18% nel trimestre finale del 2022. Big Tech e la Silicon Valley hanno prosperato a lungo grazie alla "deflazione tecnologica" legata al basso prezzo di beni e servizi alimentato dalle economie di scala dei colossi del digitale, della consulenza tecnologica, del cloud. Nella nuova normalità sono andate maggiormente in sofferenza. E a dimostrarlo è il fatto che la banca che maggiormente finanziava e forniva servizi alle start-up non è stata capace di prevenire la corsa al rialzo dei tassi

"Al culmine del boom degli investimenti tecnologici nel 2021, i depositi dei clienti di Svb", notava a fine febbraio il Financial Times, "sono aumentati da 102 miliardi a 189 miliardi di dollari, lasciando la banca inondata di liquidità in eccesso". All'epoca, "la banca accumulava gran parte dei depositi dei suoi clienti in titoli garantiti da ipoteca a lunga scadenza emessi da agenzie governative statunitensi, bloccando efficacemente metà delle sue attività per il prossimo decennio in investimenti sicuri che guadagnano, per gli standard odierni, poco reddito". Questo l'ha resa però vulnerabile al contropiede dell'inflazione, che ha aumentato tali premi al rischio, facendo al contempo pressare la banca dalle richieste crescenti di rimborso di liquidità da parte di imprese a loro volta impreparate a gestire il nuovo trend.

Federico Rampini sul Corriere della Sera commenta questa impreparazione ricordando quanto il "giovanilismo" dei rampanti startuppari del Big Tech in rampa di lancio, venti-trentenni, abbia contribuito a danneggiare la Silicon Valley. I giovani manager di oggi, nota Rampini, sono "convinti che la memoria storica non serve a nulla", e non ricordano le lezioni elementari della finanza. "Quando rinasce l’inflazione – fenomeno che conobbero i genitori o i nonni degli start-upper – le banche centrali devono alzare i tassi d’interesse per contrastarla. Addio al denaro che non costava niente e aiutava a finanziare i progetti arditi delle start-up con il venture capital. Con i tassi che salgono succede un’altra cosa, automatica: i vecchi titoli a reddito fisso che rendevano poco, perdono valore perché sul mercato arrivano titoli nuovi con rendimenti superiori. Qui non ci vuole un algoritmo, è algebra da terza media", questo il commento del commentatore del quotidiano di Via Solferino. Il nodo toccato da Rampini è chiaro: nella Silicon Valley la corsa al futuro è stata per decenni talmente impetuosa da fare dimenticare quanto la ciclicità di bolle e sfide portate da rincari e inflazione. Per anni, addirittura per decenni, è esistita solo la crescita impetuosa, in barba a recessioni globali e pandemie. Ora la realtà presenta il conto.

E prima della finanza è bene capire come reagiranno i signori del futuro delle start-up e del Big Tech a questa doccia gelata.

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