È un libro che un lettore ordinario può trovare incantevole, ma che a un lettore alpinista fa male: perché è scritto con la semplicità con cui si guarda una parete che non scaleremo mai. Buzzati racconta gli altri perché racconta sé stesso attraverso di loro, parla soprattutto della solitudine che rimane addosso a chi scende, quando la corda è nello zaino e il vento ricomincia a soffiare come se non fosse passato nessuno. Si perde sempre, e la montagna, anche quando ti lascia passare, non è che ti abbia riconosciuto qualcosa: ti rimanda a casa, ma senza l'illusione di averla vinta. Anche quando Dino Buzzati racconta i "fuorilegge" (i veri arrampicatori, quelli che rischiano, che superano ciò che era impossibile la settimana prima) lui non celebra il trionfo, celebra la ferita, la ferita come condizione d'esistenza, la montagna che ti spiega che non sei niente.
Ci siano quasi dimenticati di citarlo, il libro Dino Buzzati I fuorilegge della montagna (Mondadori), uscito nel 2010 a cura di Lorenzo Viganò e che ora torna in una nuova edizione - che è un libro da attraversare come una ferrata lunga quarant'anni fatta di racconti, cronache, articoli dispersi nel Corriere e recuperati con perizia filologica e risistemati in un corpo coerente ma non addomesticato.
Ci sono pagine che sono letteratura, altre che somigliano a una relazione di vetta, ma è la stessa disomogeneità con cui si presenta la montagna: bufera, silenzio, follia, estetica, disgusto, vertigine, tregua, poi di nuovo bufera. È il miscuglio che permette di capire la profondità del legame tra Buzzati e la geografia verticale, e c'è di tutto: le Dolomiti vergini di suoni meccanici, le prime grandi vie che si affacciavano sul sesto grado come se fosse stregoneria, lo sci invernale come avventura quasi militare, le ferrate del Brenta descritte con una prosa spoglia dove l'aggettivo "esposto" non è un artificio, ma una diagnosi. Non ci sono tecnicismi (se non espressioni come corda, scala metallica, cengia, parete attrezzata) e neanche compiacimento o estetismo: di primo acchito è solo testimonianza, eppure ogni frase è intrisa di qualcos'altro, di una sorta di soprannaturale laico, del perenne sospetto che tra le rocce abiti qualcosa di più antico di noi, e che ci guarda, non ci riconosce. Questo distingue Buzzati dagli alpinisti puri: lui vedeva la montagna come un enigma, e, laddove altri cercavano il gesto, lui cercava il significato. Ovviamente non lo trovava, ma ogni tentativo, poi, è diventato racconto.
La bellezza del libro sta nel suo disordine: non un manuale, non un romanzo, solo cronache asciutte ed elzeviri signorili, rievocazioni febbrili, racconti col fiato corto. Quel disordine è un'altra verità dell'alpinismo, dove non esiste linearità, dove ogni parete è uno scompiglio e ogni giornata un mosaico di luci, paura, tempo che cambia, decisioni prese in un minuto e rimpianti che poi durano mesi. Il cuore dell'opera resta la percezione del limite: qui Buzzati è più alpinista di tutti gli altri e sa che la montagna non si può conquistare. Non lo dice mai esplicitamente: perché la verità non ha bisogno di essere detta, quando è scritta in ogni riga. La montagna ti lascia passare oppure no, e quando lo fa non significa che ti abbia riconosciuto o premiato: significa che non aveva motivi per trattenerti. È un indulto, non una vittoria.
Questa consapevolezza passa come un vento gelido tra le pagine: l'uomo sale sconfitto in partenza e la vetta è un luogo di malinconia, dove, ancora una volta, capisci che ciò che cercavi non era lì. Il senso dell'ascesa è un non-senso, perché è sforzo logorante, incertezza, freddo, minuti in cui credi che non tornerai più. La montagna non vuole nulla da noi, e la desideriamo come un amante che non si concede. Perché salire, allora? Non c'è risposta che già non conoscessimo: saliamo per ricavarne una particolare consapevolezza del nostro essere mortali, saliamo per sentire sulla pelle che l'esistenza è una deroga all'insignificanza.
Già lo sapevamo, ma vale la pena di leggerlo per come lo scrive Buzzati: la montagna non perde mai, e non lo fa neanche quando tu scendi e ritorni incolume, perché lei non è buona, non è cattiva, tanto meno è assassina: semplicemente, di te, alla montagna, non gliene frega niente. Anche quando saliamo, convinti di misurare noi stessi, è sempre la montagna a misurare noi. E ci trova piccoli.