Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica
Eccone un altro. Dopo gli inquilini di palais Milton a Montecarlo, al 14 di boulevard Princesse Charlotte, e dopo il riscontro del parlamentare del Pdl Antonino Caruso, che ha confermato di aver ricevuto una proposta d’acquisto per quella casa, ora anche il senatore Giorgio Bornacin ritrova la memoria. In questo botta e risposta col Giornale ricorda la proposta che alcuni sanremesi gli fecero per mettere le mani sull’appartamento che An ereditò dalla Colleoni. Bornacin girò la richiesta ai vertici amministrativi del partito, che come negli altri casi risposero che l’immobile (dove ora vive il «cognato» di Fini) non era in vendita.
Senatore Bornacin, che cosa sa della casa monegasca?
«So quello che ho letto sui giornali, e so anche che tanti anni fa Donato Lamorte mi parlò di questo immobile dicendomi che era un lascito di una simpatizzante del Msi. Andai anche a vedere la casa, su suggerimento dello stesso Lamorte. Presi come occasione un incontro che avevo con degli amici dell’Automobile Club di Monaco e un bel giorno di primavera visitai l’appartamento, in una bella zona, elegante, centralissima».
Si ricorda a quando risale la proposta?
«Sono passati tanti anni, se mi chiede giorno e mese non so dirglieli. Sicuramente fu un anno e mezzo, due anni dopo che Lamorte e altri del partito avevano visionato la casa monegasca. Ribadisco: c’erano persone di Sanremo interessate ad acquistare l’immobile, mi chiesero d’interessarmi col partito, cosa che feci. Ma la risposta fu che il partito non voleva alienare l’immobile».
Con chi parlò della proposta d’acquisto avanzata da questi sanremesi?
«Con Donato, e soprattutto con il senatore Pontone, che reputo un uomo onesto e a cui mi lega una buona e lunga amicizia. La risposta fu no, non si vende. La stessa risposta che mi risulta sia stata data ad altri che hanno avanzato proposte d’acquisto».
Che idea si è fatto della vicenda di Montecarlo?
«Grida vendetta al cospetto di Dio e vi spiego perché. La mia vita nel Movimento sociale è stata caratterizzata da un impegno politico e finanziario personale. Tante volte, ma tante, per aiutare il partito ho contribuito con il mio denaro a mandare avanti la baracca. Ho dato sangue e sudore per l’Msi e per An. E come me altri simpatizzanti, iscritti, esponenti di partito e non. Tutti quelli che hanno messo denaro proprio nel partito e oggi vedono che il patrimonio di quello stesso partito è gestito così, restano senza parole. Ecco perché volevo organizzare una manifestazione a Montecarlo davanti alla casa del cognato, della contessa Colleoni. Ho provato con gli amici del Pdl di Ventimiglia, ma le autorità monegasche ci hanno fatto sapere che se solo ci provavamo ci avrebbero arrestati. Solo per questo abbiamo desistito».
I suoi rapporti con Fini?
«Lo conosco da trent’anni, gli sono stato amico fedele fino a quando, per motivi a me incomprensibili, ha iniziato a dire e fare cose altrettanto incomprensibili. Nel 1974, insieme ad Anderson, c’incaricò di predisporre la piattaforma per i decreti delegati. In trent’anni abbiamo anche discusso ma poi, da amici, ci siamo sempre chiariti. Fino a quando...».
Fino a quando?
«Fino a quando in quest’uomo è avvenuto un cambiamento radicale, dalla mattina alla sera. Una cosa incredibile, non era più lui. Non credevo alle mie orecchie quando lo sentivo parlare del Corano nelle scuole, rinnegare le battaglie sull’immigrazione clandestina, prendere posizioni personali sulla legge del fine vita. Ma io ho rotto con lui definitivamente allorché, avendo già strane idee in testa, un bel giorno mi chiama e mi dice: “Ciao vecchio, come va? Senti una cosa, Maurizio (Gasparri, ndr) è passato con Berlusconi, se hai un minuto perché non passi alla nostra riunione?”. La “nostra riunione” era quella dei finiani, per questo l’ho interrotto subito per dirgli: “Senti Gianfranco, andiamo al sodo. Se vuoi che venga alla tua riunione ti dico di no perché non condivido nulla, ma nulla, di quello che andate proponendo. Se invece lo desideri, fra tre giorni sono a Roma, ti vengo a trovare alla Camera e parliamo faccia a faccia, così ti dico tutto quello che penso. Ci conosciamo da trent’anni, certe cose è bene che ce le diciamo in faccia”. Lui mi ha risposto “Sì sì, giusto, ti chiamo io, sicuro”.
Ce lo dica lei.
«No. L’ho rivisto alla direzione nazionale. Era seduto alla fila davanti alla mia. Si è girato, mi ha visto e non mi ha salutato. Trent’anni di amicizia, capito?».
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