Italia al neon

Perché abbiamo amato così tanto Monica Vitti

Forse è stato quel suo apparire inarrivabile e popolare allo stesso tempo a sedurci. O magari la malinconica capacità di disseminare risate, anche quando dentro è tutto rotto

Perché abbiamo amato così tanto Monica Vitti

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Scivola accanto alla fermata dell'autobus, ammaccata interiormente. Passo trascinato, testa pesante, morale a pezzi. Davvero la vita è tutta lì? Qualche giorno fa ha pure pensato di farla finita. Non conta nulla se fuori è giovanissima. Un raggiro e niente più. Maria Luisa Ceciarelli preferirebbe essere chiunque altra. A casa non va bene per nulla. La regola aurea è il silenzio. La prospettiva una vita da consorte dimessa. Lei vorrebbe conoscere, cimentarsi, soffrire e sognare. Curva nelle spalle, sente un groviglio di voci che crepitano alle sue spalle. Di là dalle sbarre del cancello vede un crocchio di ragazzini che gridano, piangono, si divertono. Un po' come se stessero incollando pezzi di vita. Ci resta per un mucchio di tempo, con il naso premuto contro quella ringhiera. Se socchiude le palpebre si sogna dall'altra parte.

Qualche anno dopo quel posto lì diventerà casa. A diciassette anni respinge la ripugnante idea d'arrendersi e citofona all'Accademia d'arte drammatica Silvio D'Amico, contro il parere della madre. L'esame d'ammissione glielo fa D'Amico in persona. Bocciata. Però non è il genere di persona che si arrende quando ha indovinato la strada. Ci torna un anno dopo. Dentro. Però la voce è roca allo spasmo. Un reticolo di crepe. La sottopongono ad un consulto medico: problema alle corde vocali. L'avvertono che adesso dovranno informare D'Amico. Lei minaccia di gettarsi sotto un'auto, se lo fanno. Per fortuna desistono.

Anche perché quel timbro è seducente e popolare. Ha pure un naso che si stacca eccessivamente dal volto, tapezzato di lentiggini. Pupille feline e vaporosi capelli dorati. Avvenente e alla portata: un meraviglioso ossimoro. Ironica, ma anche velata di disarmante tristezza. Dentro di lei si consumano contraddizioni carsiche. Però Sergio Tofano, che diventa il suo maestro, la trova terribilmente spassosa. Per lei è un'autentica rivelazione. Innesca la risata altrui con irrestibile disinvolura. Le suggerisce anche, Tofano, di affibbiarsi un nome d'arte. Lei ci rimugina un giorno dietro ad una tazza di caffè, la testa reclinata sul libro preferito. Si chiamerà Monica, come l'eroina del romanzo. E di cognome farà Vitti, che poi sarebbe un pezzo del cognome della madre, Vittiglia. Dalla Sicilia, dove se ne stanno asserragliati nelle loro cadenze confortanti, i familiari schiumano disapprovazione solenne.

Lei fa spallucce. Ha capito che soltanto aggrappandosi ad un'altra versione di se riuscirà a tenersi a galla. Compito arduo per una vita intera, come lei stessa ammetterà: "Mi sparerei un colpo di rivoltella, se solo sapessi organizzarmi". Passa prima per il teatro. Ha stoffa, ma il cinema non pare filarsela. "Poco fotogenica", la derubricano. Fa il giro largo e ci entra dall'ingresso secondario. Quella voce profonda e crepata diventa il lasciapassare per il doppiaggio. Cominciano a chiamarla Monicelli, Pasolini, Fellini.

La vita per cui nasci lentamente ti viene a cercare. Nel '57 Michelangelo Antonioni ne scruta le movenze a teatro e la elegge a sua diva: è l'evento tellurico della vita di Monica. Alla prima de L'Avventura, a Cannes, il pubblico fischia impietoso. Ma il giorno dopo Rossellini firma una missiva aperta insieme ad altri trentasei cineasti: "Il più bel film mai presentato ad un festival": Touché. Sarà la prima di moltissime gioie. Il trittico varato da Antonioni sull'incomunicabilità la solleva con forza inedita. Però sa anche fare altro. Quella sua naturale ironia la scolla gradualmente dal cinema autoriale, per renderla ancora più popolare. Del resto almeno in questo lei non recita: "Mi fanno male i capelli, è vero, ma solo di mercoledì e giovedì", sussurra ai giornalisti durante le riprese di Deserto Rosso. La stampa le riconosce il beneficio del dubbio, poi stabilisce che non ci fa: ci è. Che vuoi farci, è una simpatica alienata, mormorano nell'ambiente.

Arriverà poi la commedia italiana e ne diverrà mattatrice inesorabile. Bussa Monicelli, per La ragazza con la pistola. Poi Ettore Scola, che la vede perfetta per Dramma della gelosia. Quindi l'accoppiata fortunata con Alberto Sordi. Il pubblico che la venerava ora sorride ammirato. La ragazzina che pensava di farla finita si è salvata, anche se si sente sempre oscillare. A tratti le stanze damascate della sua mente le passano una felicità inebriante. Altre volte pensa di essere sul punto di dissolversi. Costantemente in equilibrio tra gioia autentica e tetra disperazione.

Forse è per questo che l'abbiamo amata così tanto. Perché, in fondo, era regale ma anche alla mano. Perché dentro di lei hanno sempre debordato paturnie e virtù. Sogni e fragilità. Sentimenti umanissimi, che si manifestavano in soprannumero.

Perché in quel suo contraddittorio esistere si riflettono milioni di altre vite.

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