Cos’è il dumping fiscale e perché è una pratica scorretta

In parole semplici, il dumping fiscale è una politica erariale che causa problemi in alcuni Paesi favorendone altri. All’interno dell’Ue crea scompensi stimati tra i 35 e i 70 miliardi di euro l’anno. Ecco cosa è, quando si può parlare di dumping fiscale e come si sta arginando il problema

Cos’è il dumping fiscale e perché è una pratica scorretta
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Il dumping fiscale è una pratica sostanzialmente scorretta mediante la quale alcuni Paesi offrono condizioni fiscali più vantaggiose rispetto ad altri, creando così maggiore appeal soprattutto nei confronti delle grandi imprese e creando disequilibri e perdite di introiti per alcuni Stati.

Un tema spinoso del quale si parla da tempo tant’è che, nel 2021, è stata proposta a livello europeo una tassa minima globale del 15% per le grandi imprese.

Non è, quindi, soltanto questione di entrate fiscali ma, a subire l’onda d’urto del dumping fiscale intervengono anche la capacità di attrarre investimenti esteri, la possibilità di innovare e, a cascata, ne pagano le conseguenze anche l’impiego, le retribuzioni e lo stato sociale in genere.

Le conseguenze del dumping fiscale

Quando, in ambito economico, si usa la parola “dumping” si fa molto spesso riferimento a una pratica sleale. Esiste il dumping economico che si verifica quando dei prodotti vengono venduti a prezzi maggiori sul mercato nazionale e a prezzi minori sui mercati esteri, esiste anche il dumping salariale che crea disparità nelle retribuzioni che tendono a diminuire e, non da ultimo, esiste id dumping fiscale.

Tutte pratiche che leniscono gli effetti della concorrenza e, inesorabilmente, tendono a cristallizzarsi sulle spalle delle persone, sia che queste vestano i panni del consumatore o dell’utente, sia che queste vengano considerate come singoli cittadini e contribuenti.

Non è un caso, come dimostra il grafico sotto elaborato sulla scorta dei dati Eurostat, che i Paesi in cui si applicano aliquote fiscali più vantaggiose il Pil cresca in modo netto rispetto agli altri. È il caso, per esempio, dell’Irlanda e dell’Olanda.

Questo spiega anche come – in linea generale – il Pil e la crescita economia debbano essere messe in rapporto alle politiche fiscali di ogni singolo Stato.

Tutto ciò è propedeutico alla necessità di regimi fiscali più equi a livello continentale e persino globale.

Si stima che le pratiche scorrette che nascono dalle disparità fiscali generino ogni anno trai 35 miliardi di euro e i 70 miliardi di euro di minori introiti tra i Paesi meno attrattivi.

La riforma fiscale globale

È proprio nel contesto di dumping fiscale che si articola la global minimum tax, un’aliquota fiscale minima del 15% da applicare alle aziende con fatturati annui superiori ai 750milioni di euro. Un accordo sostenuto dai Paesi Ocse e che entrerà in vigore nei Paesi Ue a partire dal primo gennaio 2024.

L’intento è quello di assottigliare le differenze tra le aliquote fiscali in auge nei diversi Paesi, andando così a limitare anche gli effetti del dumping fiscale.

Non di meno, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), auspica l’introduzione di nuove misure per lenire il dumping fiscale e, tra queste, spiccano:

  • la riforma dell’Iva a livello comunitario
  • la riforma dei regimi speciali di tassazione
  • l’introduzione di un’aliquota fiscale minima sul reddito d’impresa.

Quest’ultima proposta ha una lettura profonda perché, sempre restando nell’orbita dei consigli dell’Ocse, ogni azienda dovrebbe pubblicare i profitti realizzati in ognuno dei mercati in cui opera e, parallelamente, essere trasparente nel rendere noto quanto ha versato di imposte in ogni

Paese.

In sintesi, e questo vale anche e soprattutto per l’Europa, un modo per aspirare all’unità partecipe passa proprio attraverso una riforma fiscale che cancelli (o per lo meno limiti) il dumping fiscale.

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