Cocktail, segreti e Gestapo. Benvenuti all'hotel Ritz

Philippe Collin ricostruisce splendori e declino del famoso bar parigino durante l'occupazione nazista

Cocktail, segreti e Gestapo. Benvenuti all'hotel Ritz

Negli anni Trenta del '900 il libro più di moda fra gli happy few del piccolo, ma affollato mondo che ruotava intorno all'hôtel Ritz di Parigi - principesse e mantenute, spesso mantenute principesse, principi e biscazzieri, spesso biscazzieri principi, esteti e alcolizzati, spesso alcolizzati esteti, scrittori famosi e scrittori in cerca di fama, spesso scrittori affamati - fu The Artistry of Mixing Drinks. Tirato in mille esemplari, senza prezzo di copertina, stampato da Bishop&Sons, una tipografia della rue Bichat, nel X arrondissement, per conto di Fryam Press, scritto in inglese, con una prefazione di Jean-Louis prince de Viggiano e un Ode to the Ritz Bar di J.A. T.H. Morgan, portava la firma di Frank Meyer, conteneva più di quattrocento ricette di cocktails e, in appendice, alcuni consigli e istruzioni per l'uso che andavano da come prestare soccorso in caso di annegamento o di insolazione o del morso di un serpente, ai fusi orari, le unità di misura, di peso e di temperatura, le forze dei venti, le smacchiature di vestiti, mobili, superfici varie, una storia dell'ippica... Una ventina di pagine di inserzioni pubblicitarie, che andavano dall'oreficeria Christofle agli champagne Clicquot e Krug passando per il cognac Hennessy, le sigarette Craven A e Khédive, il quotidiano continentale Daily Mail, faceva capire perché il libro non fosse messo in vendita, ma dato in omaggio dal suo autore, e il tipo umano interessato alla sua lettura: bevitore, fumatore, giocatore, viveur, uomo di mondo insomma.

Frank Meier era allora una leggenda, l'incarnazione stessa del Ritz, del cui bar américain aveva preso le redini all'indomani della Grande guerra. Austriaco, nato nel 1884, naturalizzato francese dopo aver combattuto nella Legione straniera, all'inizio del secolo Meyer si era fatto le ossa a Londra e poi negli Stati Uniti. Qui, all'hôtel Hoffman House, il più prestigioso di New York, era stato scelto da Charles Mahoney, che ne era il barman, come suo allievo e secondo in carica, e in seguito aveva fatto tutto da solo. Rispetto al Ritz immortalato da Marcel Proust, le feste, i diners, i saloni e i ricevimenti, la mondanità insomma, Meyer vi aveva apportato quel gusto d'oltreoceano che faceva di uno spazio riservato un ambiente privilegiato dove il barman era un diplomatico e insieme un consigliere, un confessore che non dispensava penitenze, un camaleonte nella sua capacità di venire incontro alle esigenze più diverse, mantenendo però una distinta personalità.

Baffuto e robusto, i capelli imbrillantinati con la riga al centro, Meyer ebbe fra le due guerre una clientela che spaziava da Cole Porter a Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, da Florence Jay Gould a Jean Cocteau e Kermit Roosevelt, il figlio del presidente degli Stati Uniti, da Coco Chanel a Sacha Guitry, a Paul Morand e Marthe Bibesco, e insomma poeti francesi, scrittori statunitensi, ereditieri ed ereditiere varie, diplomatici e dandies cosmopoliti, le nozze fra l'aristocrazia, la ricchezza e la bohème all'ombra e al riparo di un bancone in legno scuro dietro il quale, austera e insieme amabile troneggiava la sua figura.

Delle quattrocento ricette elencate nel suo libro, alcune sono dello stesso Meyer, firmate in basso, in uno stile Art dèco, con le sue sole iniziali: hanno tutte nomi poetici e misteriosi, Blue Bird, Happy Honey Annie, Cora, Seapea, si distinguono tutte per il numero limitato di ingredienti usati, non più di tre o quattro, una sobrietà sofisticata che era un po' il suo marchio di fabbrica.

Il Ritz bar di Parigi fu sino alla fine di quel decennio un bar unico al mondo per la sua clientela, per la sua art de vivre e per la sua joie de vivre, lusso, calma e voluttà per parafrasare un verso di Baudelaire. Nulla di quello che accadeva fuori di quelle quattro mura sembrava potesse toccarlo, scioperi, rivoluzioni, colpi di Stato, guerre civili e fronti popolari, crisi ministeriali e conferenze internazionali sulla pace... Ci si illudeva, e si continuava a bere, senza accorgersi di star seduti ai bordi di un vulcano prossimo ormai a eruttare. Ancora nel 1939, quando la Seconda guerra mondiale venne ufficialmente dichiarata, al Ritz di Parigi, per indicare la parte per il tutto, ovvero la Francia, si continuò a parlare di "drole de guerre", la strana guerra, dove non si sparava un colpo di cannone e la Linea Maginot stava a significare l'impossibilità per un esercito straniero di penetrare nel suolo nazionale. Nel giro di un mese, nella primavera-estate del 1940, l'esercito tedesco sfilava sugli Champs Elisées...

Comincia qui Il barman del Ritz di Philippe Collin (Rizzoli, pagg. 396, euro 18,50; trad. Luigi Maria Sponzilli), ovvero la storia romanzata delle oltre mille notti, 1533 per l'esattezza, in cui il piccolo regno di cui Frank Meyer è il sovrano riconosciuto, resta aperto, nonostante il coprifuoco sia di rigore, e si vede obbligato ad accogliere i nuovi occupanti, quasi sempre in uniforme. Scomparsa di colpo la clientela anglosassone, diradatasi quella diplomatica, l'élite parigina antitedesca che non si rassegna a perdere le proprie abitudini e che fa di quella frequentazione una sorta di "resistenza segreta" a petto dell'invasore, si ritrova però mischiata a una fauna collaborazionista che fa da corona ai vincitori del momento: avventurieri, faccendieri, prostitute e prostituti d'alto bordo... Con uno stile scorrevole, mischiando realtà e fantasia, Collin racconta gli sforzi dei proprietari e dei manager del Ritz, Marie Louise Ritz, Claude e Blanche Auzello, per tenere aperto l'albergo e, naturalmente, di Frank Meyer perché quel bar non si trasformi nella mensa ufficiali della Wermacht o delle SS. I suoi clienti sono infatti Otto von Stulpnagel, comandante in capo delle truppe d'occupazione, il generale e suo omonimo Heinrich, che ne prende il posto, il capitano Ernst Jünger, che qui lascia il posto al raffinato scrittore Ernst Jünger, l'ambasciatore Otto Abez, il funzionario per la propaganda Gerard Haller, lo scultore Arno Breker. Sono loro a bere i cocktails che Franck Meyer continua a preparare e a servire. Il dopo-teatro vede però arrivare la corte scenica di Sacha Guitry, quella di Jean Cocteau e di Arletty, si sente la voce di Maurice Chevalier. La vita continua e il confine fra resistenza e collaborazione è sottile e indefinibile.

Il Barman del Ritz si conclude il 25 agosto del 1944, quando dall'entrata posteriore di rue Cambon entra nell'albergo e poi nel bar Ernest Hemingway, nella duplice veste di inviato di guerra e capobanda di un gruppo di ufficiali e soldati americani assetati. "Ciao Frankie! Come ti va la vita?", chiede a Meyer come se si fossero lasciati un mese prima.

Il finale vero è però più amaro: pochi giorni dopo Meyer verrà arrestato per collaborazionismo e arricchimento illecito e per tornare in libertà dovrà sborsare 300mila franchi, tanti soldi, per l'epoca. Un anno più tardi il Ritz lo licenzierà, due anni dopo morirà, a 63 anni. È sepolto nel cimitero parigino di Pantin.

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