Così De Gasperi sfidò il fascismo

Nel 1927 venne imprigionato dal regime. Ecco come raccontava il suo processo

Così De Gasperi sfidò il fascismo

Una voce che resiste alla prigione, un padre che scrive alla moglie e alla figlia, un uomo politico che si interroga sul destino dell’Europa. Le «Lettere dalla prigione» (pagg. 200, euro 19) di Alcide De Gasperi — raccolte in questa nuova edizione di Marietti1820 e di cui presentiamo un’anticipazione per gentile concessione dell’editore - restituiscono l’umanità profonda, la fede e la lucidità di pensiero di uno dei protagonisti della rinascita democratica italiana. Arrestato nel 1927 per la sua opposizione al fascismo e rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli, De Gasperi scrive in condizioni durissime, con pochissimi contatti con l’esterno, sotto censura e sorvegliato. Ma quelle lettere, rivolte soprattutto alla moglie Francesca e alla figlia Maria Romana, diventano testimonianza viva della sua dignità personale e della sua vocazione pubblica. «Le mie mani sono legate, ma il mio spirito resta libero. E libero vuole restare», scrive a poche settimane dall’arresto. Il carcere non spegne in De Gasperi il senso della responsabilità. Al contrario, acuisce la sua sensibilità morale. In un’epoca in cui la politica rischia di perdere contatto con la realtà, queste lettere ricordano che il servizio pubblico nasce, sempre, dalla coscienza individuale.

Cara Maria, ti scrivo l'antivigilia (Antivigilia del processo in Appello), non perché abbia da dirti cose nuove nel mio piccolo mondo nulla accade ma perché le mie parole vi arrivino con la notizia che ansiosamente attendete, o poco dopo. Se la notizia sarà buona, questa mia non turberà la festa del vostro cuore; se la notizia sarà cattiva, codeste mie parole vorrebbero consolarvi voi, come, meditandole e scrivendole, tenta di confortarsi l'animo mio. Riflettendo a mente fredda, il sì e il no paiono bilanciarsi. La questione giuridica e di fatto non comporta che l'assoluzione, ma il problema, trasferito nella realtà vivente, assume nostro malgrado un carattere politico, ed ecco che l'incognita paurosa si ripresenta. Francesca vi avrà anche scritto per quali improvvise vicende, all'ultimo momento, uno dei due avvocati, l'estensore del ricorso, non mi starà allato. Dio solo sa perché anche ciò dovesse sopraggiungere. A questo venirci meno, tra le mani, degli strumenti personali su cui contavamo, Francesca ed io, quasi contemporaneamente entrambi abbiamo esclamato: faccia il Signore secondo il Suo eterno disegno, giacché a noi, poveri tessitori dell'umana trama, ci si spezza il filo in mano. Ed io, come spesso, cerco rifugio nell'Imitazione e prego: Domine Deus, iudex iuste esto robur meum et tota fiducia mea: non enim mihi sufficit conscientia mea. (Signore Iddio, giudice giusto, sii la mia forza e tutta la fiducia mia; poiché non mi basta la coscienza mia).

Eppure, credi, mi pare che soffrirei di più per quello che a me dovrebbe apparire come oltraggio alla giustizia, che per la pena, almeno com'è ridotta nella misura presente. Al confronto di Regina Coeli ed un pochino anche, per quanto assai diversamente, dell'ospedale, mi pare che questa clinica sia il Limbo: "Loco è laggiù non tristo da martirî... ove i lamenti Non suonan come guai, ma son sospiri". Dovrei starmene tranquillo, ora che ho potuto vedere così a lungo Francesca.

Ah. Com'è brava, com'è abile, com'è eroica la nostra Francesca! Appena manca Lei, mi accadono dei guai; quando ritorna, alle sue infaticabili premure riesce di accomodar tutto. Quante scale è salita, quante umiliazioni per amor mio! Come farò io a ripagarla nella vita? Se fossi ricco, non sarebbe troppo ingemmarle la fronte di pietre preziose, e forse invece, in codesto mio incerto avvenire, non le potrò offrire che una corona di spine. Quando la vedo venire, tanto dimagrita e sottile, con impresse nel viso le sofferenze di questo tragico anno, pur sforzandosi di sorridermi e mostrarsi quasi lieta, io sento pena e rimorso. Oh, da quali opposti venti è agitato il mio spirito! Quando è lontana, mi pare di essere un naufrago su di uno scoglio solitario; quando è vicina a dividere più dappresso le mie pene, vorrei che partisse subito per ristorarsi nella famiglia e sulla montagna. S'io debbo restare, che lei almeno riprenda sul serio a curare il suo corpo, che ne ha bisogno estremo. Non è mai stata così: ma quando mai ha sofferto così atrocemente e così a lungo? Oh, come vorrei accompagnarla e sostenerla in mezzo a voi e alle mie bimbe.

Nell'isolamento ho imparato che la vita è composta, più di quello che non si creda, di piccole cose. Forse la nostra generazione ha avuto un'educazione troppo sensitiva e i nervi, per mancanza di pace e di adipe, li portiamo discoperti. Ma facendo un confronto tra i miei diversi modi di prigione, ben apprendo qual valore abbia, nella vita di tutti i giorni, uno stormir di foglie, una ciocca di fiori, l'onda argentina d'un rivoletto intravisto tra il verde, il trillo d'un uccello, una bella figura che passa sulla via, una cuspide che si erga tra gli edifici uniformi, il tocco d'una campana. Voi comprendete che queste inezie intessono parte della mia giornata, quando non leggo o riposo. La campana, specialmente. Leggevo iersera di San Paolo che fu messo in catene sette volte, battuto coi flagelli più volte ancora, lapidato. Sì, erano altri spiriti, ma diciamolo a nostra scusa erano anche altri corpi. Saulo stesso aveva prima, senza batter ciglio, cacciato in prigione uomini e donne e fatto conoscere alle sue vittime ogni tormento; ed erano i tempi in cui i Leviti, per le troppe vittime che si sgozzavano nell'atrio del Tempio all'ora dei grandi sacrifici, dovevano montare sugli sgabelli per non guazzare nel sangue. Francesca, poverina, si è affannata quando, l'altro giorno, nel trasporto dall'ospedale mi rivide legato con la "catena di sicurezza". Ma che cos'è quella catenella, in confronto di quella che si conserva in San Pietro in Vincoli? Mutate sono le cose e mutati gli uomini. Il Padre solo, che sta nei cieli, è immutato, e noi ripetiamo a Lui la preghiera che ci insegnò Cristo or sono duemila anni. Tutte le mie opere sono crollate, tutti i miei disegni sono distrutti, e dileguate come nebbia le mie speranze. Ed ora ho perduto anche la libertà di muovermi e di lavorare. Se il Signore, esaudendo le preghiere che salgono a Lui in questi giorni, me la vorrà restituire, io la accetterò noi la accetteremo come un Suo dono prezioso; se vorrà prolungare la prova, io mi inchinerò con riverente spirito ai misteri della Sua Provvidenza. E tutti lo faremo vero? con un nuovo atto di fede nell'amore del Padre che sta nei cieli, che ci rimette le offese come noi le rimettiamo ai nostri offensori e pensa alla nostra giustificazione.

Nel silenzio che mi circonda sento, come nell'aria immota, lo sbatter d'ali della Sua benigna potenza. Mi ci affido, andando in tribunale, come ad occhi chiusi. Se questa mia vi arrivasse con altra notizia di tristezza, stringiamoci assieme, o cari, sotto l'ali della Provvidenza Divina e confidiamo e speriamo. Vi bacio tutti, ad uno ad uno; e Maria Romana e Lucia, a lungo, a lungo...

Ricordatemi in casa di zia.

Grazie delle tue notizie.

Vostro Alcide

Clinica Ciancarelli,
Roma, 20 luglio 1927

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