Cecchini in trasferta in Bosnia, almeno 200 gli italiani che sparavano sui civili a Sarajevo

C'è un ex militare dietro l'esposto da cui è partita l'indagine dei pm di Milano. Ecco chi erano e come si muovevano. L'inquietante tariffario: i bambini i più cari, i vecchi gratis

Cecchini in trasferta in Bosnia, almeno 200 gli italiani che sparavano sui civili a Sarajevo

Spunta un superteste militare e un macabro tariffario dietro i cecchini italiani - almeno 200 - che dal 1992 al 1996 avrebbero sparato sui civili inermi durante l’assedio di Sarajevo dopo essere arrivati in tuta mimetica da Triveneto, Piemonte o Lombardia, su pulmini partiti e tornati in 72 ore che attraversavano i check point sia in Croazia sia in Bosnia, quasi indisturbati, con la scusa della «missione umanitaria» e qualche generosa mazzetta per i loro Safari a Sarajevo. Come aveva anticipato il Giornale lo scorso 18 luglio c’è un'inchiesta aperta dalla Procura di Milano sui «cecchini del weekend» che da mezza Europa, Italia compresa, si facevano portare sulle colline intorno alla capitale bosniaca da una sorta di agenzia di viaggi che organizzava il trasferimento e che avrebbe fissato una tariffa per queste uccisioni: i bambini costavano di più, fino a 100 milioni delle vecchie lire, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis.

Come sappiamo, l’assedio a Sarajevo è costato la vita a 11.541 civili (tra cui 1.601 bambini), la battaglia è stata paragonata all’assedio di Stalingrado della Seconda Guerra Mondiale. Molti dei cecchini erano piazzati nelle colline di Grbavica, la zona serba tagliata in due dal fiume Miljacka. Della presenza di italiani tra i cecchini si era parlato nel 1995 sul Corriere, senza sufficienti prove. Qualche anno fa la stessa tesi era stata rilanciata dal giornalista Luca Leone, co-fondatore di Infinito Edizioni e autore nel 2014 del romanzo «I bastardi di Sarajevo».

Secondo l’esposto firmato dallo scrittore Ezio Gavazzeni assistito dall’ex pm Guido Salvini e depositato nei mesi scorsi sulla scrivania del pm Alessandro Gobbis, magistrato esperto specializzato nell’Antiterrorismo, ci sarebbe una fonte in Bosnia-Erzegovina che avrebbe riferito un particolare decisivo: già a fine 1993 l’intelligence bosniaca avrebbe avvertito la locale sede del Sismi (il servizio segreto militare, oggi Aise) della presenza di almeno 5 italiani, che si trovavano sulle colline intorno alla città, accompagnati per sparare ai civili. Ma i nostri connazionali coinvolti sarebbero almeno duecento. «La presenza dei nostri servizi segreti in loco era giustificata dalla presenza della missione delle Nazioni Unite chiamata Unprofor - si legge nell’esposto che il Giornale ha finalmente potuto consultare - della quale facevamo parte anche noi».

La fonte sarebbe Edin Subašić, ex 007 che avrebbe lavorato per questa macabra agenzia di viaggi. I bersagli di solito non venivano uccisi subito, ma feriti gravemente in attesa che i soccorsi arrivassero per essere a loro volta colpiti. Nella testimonianza raccolta dalla fonte e depositata al pm si parla di un uomo di Torino, uno di Milano e uno di Trieste. Uno di loro sarebbe stato al tempo il proprietario di una clinica privata di Milano che si occupava di estetica. Di spietati europei che venivano portati a Sarajevo si parla anche nel documentario «Sarajevo Safari», dell’autore sloveno Miran Zupanic, presentato durante la rassegna cinematografica Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival alla fine del 2022 e oggi disponibile a pagamento solo su Al Jazeera. Uno dei testimoni chiave nel documentario, che ha preferito rimanere anonimo, racconta di aver saputo dell’esistenza di «cacciatori di esseri umani» stranieri (americani, canadesi, russi, ma anche di italiani), disposti a pagare per «giocare» alla guerra.
Una testimonianza che si sposa con la versione di Edin Subašić, secondo cui i cecchini sarebbero arrivati «attraverso l’Italia a Belgrado e poi a Pale, a pochi chilometri da Sarajevo dove risiedevano gli ufficiali dell’esercito serbo». Secondo la testimonianza, basata sul racconto di un volontario serbo catturato i cecchini/cacciatori sarebbero «partiti da Trieste e da lì arrivavano in Serbia, e poi a Sarajevo».
I viaggi sarebbero stati effettuati «tramite un aereo da Trieste, poi attraverso elicotteri e veicoli dalla Serbia attraverso la zona di guerra fino a Sarajevo» attraverso «le infrastrutture dell’ex compagnia aerea serba di charter e turismo Aviogenex, che aveva una filiale a Trieste. Uno dei membri di questa organizzazione sarebbe Jovica Stanišić, condannato per crimini di guerra al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia.


L’identikit del cecchino sarebbe molto preciso: gente ricca, cacciatori appassionati dei classici safari legali, a caccia di adrenalina e di trofei «umani», amanti delle armi con profili di psicopatologie o sadismo, ex militari orfani dei campi di battaglia. Ci sarebbero ancora testimoni oculari vivi ma secondo le ricostruzioni in mano alla Procura sarebbero sottoposti a pressioni da parte dei servizi serbi per mantenere segreta l’intera operazione.

Lo stesso sindaco di Sarajevo Benjamina Karić è in attrito con Ljubiša Ćosić, il sindaco filoserbo di Sarajevo Est che non ha intenzione di far perseguire alcuni serbi dai servizi segreti bosniaci. Ma anche la nostra intelligence potrebbe avere in mano qualche nome. Chissà come si muoverà adesso la Procura.

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