
C’è una protagonista antipatica e dimenticata, in tutta la vicenda di Garlasco, e mi riferisco all’omicidio di Chiara Poggi (13 agosto 2007) e al seguente corso della giustizia: la coscienza.
Quella dell’assassino la lascio perdere, non mi aspetto soprassalti. Purtroppo i giganti del male di Dostoevskij sono chiusi nei suoi romanzi, difficilmente balzano fuori dalle cronache meschine delle loro infamie. Costoro digeriscono serenamente il sangue delle vittime e, sui minuti infiniti di crudeltà con il martello che si abbatte sulla testolina della ragazza, dormono come se fossero guanciali di piume. Parlo della coscienza dei giudici. Come hanno fatto a decretare la colpevolezza di Alberto Stasi «oltre ogni ragionevole dubbio», condannandolo non solo al carcere per sedici anni ma dannando la sua reputazione con sentenza definitiva, martellata anch’essa sulla fronte limpida di un bravo ragazzo, la seconda vittima? Mi chiedo come siano le notti di questi magistrati intoccabili per legge, ma che mi auguro, per la stima che merita gente con una responsabilità così grande, sentano i denti di una voce interiore macinargli le budella.
Non parlo sulla scorta dell’emozione, ma del raziocinio. Ed è la mancanza di questo attrezzo decisivo per fare giustizia che incendia le mie, di budella.
Ricapitolo. Le indagini furono fatte con i piedi.
Le omissioni e i pasticci furono subito chiari: inquirenti che inquinano il luogo del crimine, dimenticano guanti, il cadavere della povera Chiara riesumato per la dimenticanza di prendere le impronte delle dita, macchie di sangue trascurate, testimoni liquidati perché spostavano l’attenzione lontano dal colpevole perfetto, da film, il ragazzo impassibile, dagli occhi freddi, dalle emozioni riposte dentro la cassaforte del petto (con gli anni ho imparato a conoscerlo, ma lo compresi subito) scambiate per incapacità di empatia.
Non ripercorro gli errori, ma le sentenze. Primo grado. Il Gup di Vigevano (17 dicembre 2009): assoluzione «per non aver commesso il fatto».
Secondo grado. La Corte di assise di Appello di Milano (6 dicembre 2011), due giudici, più giuria popolare, esito identico: assolto. I magistrati redigono motivazioni applicando la ragione: pregiudizi più che indizi. Il dubbio è un obbligo di coscienza.
Non si parla di insufficienza di prove: mancano proprio. La Procura fa ricorso. La Cassazione che fa?
Constata che l’andamento dell’inchiesta «fu senz’altro non limpido, caratterizzato anche da errori e superficialità».
Dopo di che la logica direbbe: il procedimento è nullo, è imbastardito da elementi tossici. E invece con acrobazia da saltimbanco si stabilisce che Stasi è colpevole «oltre ogni ragionevole dubbio». La Suprema Corte insomma tratta i propri colleghi da deficienti, incapaci di esercitare la ragione (18 aprile 2013).
Tutto è rinviato a una nuova Corte d’Appello di Milano che non può che recepire le direttive dei «superiori». E infine di nuovo la Cassazione sigilla il tutto (17 dicembre 2015). Indagini rifatte? No. E allora?
Ovvio che dopo i due primi gradi di giudizio così chiari e distinti (non ci sono prove!) si sarebbe dovuto procedere a rifar tutto, a riprendere in mano da capo il filo degli eventi. E, stante la sordità della Procura, avrebbe dovuto essere la Cassazione a raccogliere il grido di dolore di giudizi di due tribunali diversi, sul filo del buon senso e della logica.
Oggi l’irrazionalità fino all’assurdo della condanna di Stasi sfila imbandierata da Gran Pavese davanti al popolo italiano. Come può essere sfuggita all’osservazione degli inquirenti quella materia biologica sulle unghie della vittima che pure era rilevabile con più cura?
Si apprende in questi giorni che l’allegra brigata di testimoni che frequentavano casa Poggi, lungi dall’essere spremuta per allargare le indagini, fu usata nel 2007 dagli inquirenti come una sorta di polizia sotto copertura per «incastrare» Stasi. Lo rivela una ragazza non indagata. Fu invitata da un carabiniere a porre domande trabocchetto al fidanzato di Chiara in una saletta della caserma per farlo cadere in contraddizione: e lei si prestò, senza successo.
Ora costei, insieme a tutti gli «amici», deve lasciare traccia del suo Dna, così come i carabinieri e il medico legale sprovveduti per aver agito senza le precauzioni più elementari. Concitazione dovuta all’orrore?
Cambiate mestiere, ragazzi, in Lomellina cercano mondine e cacciatori di rane.
Ahimè si è atteso quasi diciotto anni, dopo che dieci anni fa a mettere il suo timbro indelebile sulla bestialità è stata la Cassazione. Ora è difficilissimo, si tratterebbe di modificare una sentenza definitiva.
Definitivo è stato l’errore, meditato e perciò più grave, al limite dell’orrore della ragione.
Mi auguro che, sia pure con il dovuto ritardo romano, la coscienza degli ermellini abbia non dico un soprassalto, ma un tremolio, che li sospinga verso una immeritata pensione. E intanto il capo dello Stato prenda nota. Coscienza cercasi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.