"Gli hikikomori non devono essere puniti". Quell'ombra sull'omicidio-suicidio di Verona

In Italia sarebbero 54mila i giovani, soprattutto adolescenti, che rifiutano ogni contatto con la realtà vivendo isolati nella propria stanza. Parla lo psicoterapeuta Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro

"Gli hikikomori non devono essere puniti". Quell'ombra sull'omicidio-suicidio di Verona
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Potrebbe essere stato un hikikomori, Patrizio Baltieri, uno dei due fratelli trovati senza vita a Verona. Quello degli hikikomori è un fenomeno individuato per la prima volta in Giappone, che riguarda quei giovani che a un certo punto della propria vita, magari per una delusione subita, scelgono di isolarsi dalla realtà che li circonda, chiudendosi nella propria camera, un microcosmo di buio e silenzio, dove l’unica compagnia ammessa, molto spesso, è quella di internet.

Secondo una recente ricerca condotta dall'Istituto di fisiologia clinica del Cnr e promossa dal Centro Studi Gruppo Abele di Torino, in Italia gli hikikomori sarebbero 54mila. Cosa si cela dietro questa condizione? "Non è una malattia", dice a IlGiornale.it Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro (Centro clinico di consultazione e psicoterapia), tra i maggiori studiosi del fenomeno del ritiro sociale. Mancini ha appena pubblicato il libro “Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta”, Raffaello Cortina Editore.

Dottor Lancini, cosa si intende per hikikomori?

"In Italia lo definiamo 'ritirato sociale', ma non c’è un profilo univoco. Si tratta di una condizione che riguarda giovani dai 12 ai 24 anni che non sanno affrontare le difficoltà imposte dal periodo che stanno fisiologicamente attraversando. In una società sempre più competitiva e individualista si sentono inadeguati, incapaci di raggiungere le aspettative di scuola e famiglia".

Dunque ne fanno parte diverse categorie?

"Il ritiro primario comprende quei giovani che, pur isolandosi, mantengono un minimo di interazione con la realtà. Nei casi più gravi troviamo ragazzi che invece non hanno nessun contatto. I Neet (persona che non studia e non lavora, ndr) tra i 15 e i 34 anni sono quelli che in un preciso momento della loro vita non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi di formazione scolastica o professionale. Quest’ultima categoria è più presente al Sud e legata alla mancanza di posti di occupazione. Ci sono altre forme miste, ad esempio, chi non va a scuola ma mantiene qualche legame con dei coetanei, e chi frequenta la scuola, ma non ha amici".

Quali conseguenze può avere questa condizione?

"La dispersione scolastica è strettamente legata a questo fenomeno, perché negli ultimi anni sono sempre di più, in Italia, i ragazzi che si ritirano in una sorta di suicidio sociale in un momento della propria vita in cui dovrebbero nascere socialmente. Durante la pandemia la scuola italiana obbligava gli studenti a tenere la telecamera accesa e a mettere la faccia davanti lo schermo, cosa che non succede con il lavoro in smartworking: questo ha portato molti studenti, una volta finito il lockdown, a non tornare fra i banchi, maturando un senso di rifiuto verso questa istituzione scolastica".

È un fenomeno prevalentemente maschile, come mai?

"I ragazzi scelgono di diventare soggetti domestici, trattengono la rabbia, abbassano lo sguardo e si chiudono in camera. Il sesso femminile invece esprime il proprio disagio sociale mortificando il proprio corpo attraverso i disturbi della condotta alimentare. Il rifiuto del cibo, l’eccessiva magrezza, quel fisico che sfiorisce fino a diventare uno scheletro manifesta la volontà di diventare invisibili. Nello stesso tempo però le ragazze vogliono ottenere risultati eccellenti nello studio".

Che ruolo gioca internet in questo isolamento?

"Non è la causa e neppure un nemico. Una delle principali vicende da indagare quando si ha a che fare con un hikikomori è capire se ci sia il web nella sua vita. I ritirati sociali gravi non lo usano e non hanno i social, al massimo fruiscono di videogiochi dove interagiscono con altri utenti anonimi. In questo modo riempiono il loro vuoto relazionale. A volte internet consente che il ritiro non sfoci in un breakdown psicotico, dunque nella pazzia, perché consente di costruire un minimo di relazioni sociali, seppur virtuali. Forse senza internet non ci sarebbe mai stata la diffusione di questo fenomeno, ma non è la causa di disconnessione di questi ragazzi".

Gli hikikomori accettano di essere aiutati?

"Solo se l’adulto comprende la loro sofferenza e non è punitivo nei loro confronti. Quando si tratta di aiutare un hikikomori bisogna saper mediare, prospettando un intervento che rispetti i bisogni dell’adolescente. Ad esempio negargli l’uso di internet o costringerlo a tornare a scuola sarebbe sbagliato. La scuola del futuro dovrebbe dare anche ai ritirati sociali l’opportunità di continuare gli studi attraverso percorsi alternativi come la didattica a distanza. È sbagliato bocciarli solo perché non vanno a scuola. Per loro sarebbe un’ulteriore sconfitta".

Si può uscire da questo

isolamento?

"Non è una malattia, ma una condizione che si può imparare a gestire. A distanza di tanti anni gli hikikomori, pur restando soggetti schivi e discreti, si laureano, lavorano, possono costruirsi una vita".

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