"Yara, Ylenia e le Bestie di Satana. Così racconto l’orrore con le foto"

Le immagini per raccontare il male: un libro esplora i grandi casi della cronaca nera italiana e internazionale tra testi e fotografie

Yara Gambirasio, Ylenia Carrisi e Fabio Tollis
Yara Gambirasio, Ylenia Carrisi e Fabio Tollis

Non si dovrebbe giudicare un libro dalla copertina. Eppure quell’acquerello di John Wayne Gacy, che quasi sembra osservare il lettore dalla copertina di “Le foto che hanno segnato un’epoca - Cronaca Nera” di Roberto Vitale, è estremamente affascinante. Vitale, fondatore delle pagine social “Le foto che hanno segnato un’epoca", “I dischi che hanno segnato un’epoca" e “L'arte ai tempi dei social network”, ha realizzato questo volume (e altri) per Beccogiallo. Al suo interno tantissime storie “nere” con le illustrazioni di Greta Molinari. “Ho scelto i casi non solo per la loro risonanza mediatica, ma per ciò che rivelano del contesto storico, sociale e umano in cui sono avvenuti”, spiega Vitale a IlGiornale.

Vitali, il libro viene dall’esperienza di una fanpage social. Ma come nasce l’idea di raccontare la cronaca nera senza nessun tipo di commento?

“Il progetto è nato nel 2016, quando ho deciso di aprire ‘a pagina ‘Le foto che hanno segnato un’epoca' su Facebook, con l’obiettivo di raccontare le storie nascoste dietro alcuni scatti incredibili che hanno fatto la storia della fotografia. Sui social ho sempre cercato di lasciare spazio all’immagine, al documento, alla memoria visiva, senza sovraccaricare di giudizi o interpretazioni. Con la cronaca nera ho scelto lo stesso approccio: non c’è bisogno di aggiungere altro quando i fatti parlano da soli. In un’epoca in cui tutto è polarizzato, dove ognuno ha un’opinione e la vuole imporre, ho sentito il bisogno di fare un passo indietro. Di raccontare la cronaca con rispetto, sobrietà e silenzio”.

Tra i tanti casi illustrati ce ne sono diversi internazionali, noti e meno noti. Quali sono stati gli unicum di alcuni di essi per cui ha deciso di includerli?

“Innanzitutto mi preme dire che, in tutti i libri che ho scritto finora, sono quasi sempre partito dalle immagini. Le foto, per me, sono memoria viva: sono come ferite o medaglie, restano. E da lì poi, comincio a costruire le storie, andando oltre la superficie”.

Per esempio?

“Alcuni casi, come quello di Jeffrey Dahmer, sono emblematici delle falle sistemiche: lì non è solo la storia di un serial killer, ma il racconto di una serie impressionante di sottovalutazioni da parte della polizia, anche per via di pregiudizi legati all’orientamento sessuale delle vittime o al contesto sociale in cui vivevano. È un caso che fa riflettere non solo sull’orrore, ma sull’indifferenza. Altri casi, meno noti come quello di Hello Kitty, accaduto a Hong Kong, sono invece colpiti da un silenzio mediatico ingiustificato. Quella è una vicenda che sembra uscita da un film dell’orrore, ma è reale, documentata, e racconta molto del degrado urbano, della disumanizzazione, del senso di impunità in certi ambienti”.

Perché le foto di Yara Gambirasio che si esercita nella ginnastica rappresentano in maniera tanto forte quel periodo nella vita di moltissimi italiani, come pure viene sottolineato nella prefazione di Stefano Nazzi?

“Quelle immagini di Yara che si allena sono diventate un simbolo di una ferita collettiva. In quei giorni, l’Italia intera si è stretta attorno alla sua storia, seguendo con ansia ogni aggiornamento, ogni speranza, ogni silenzio. E proprio quelle foto, così quotidiane, così normali, ci hanno ricordato chi era Yara: una ragazzina, come tante, con le sue passioni, le sue giornate piene di sogni. Erano immagini di vita: in esse c’è tutta la dissonanza tra ciò che Yara era e ciò che le è stato tolto. Penso che abbiano colpito così tanto perché molti italiani si sono riconosciuti in quella normalità. Sono immagini che non parlano solo della tragedia, ma della vita interrotta”.

Perché tra i tantissimi scomparsi italiani ha scelto le storie di Ylenia Carrisi e Maria Teresa Novara?

“Perché entrambe, pur diversissime tra loro, raccontano qualcosa che va oltre la semplice scomparsa: ci parlano del mistero, del tempo sospeso, dell’impossibilità di avere risposte definitive. Ylenia Carrisi era un volto pubblico, una ‘figlia d’Italia’ per molti, cresciuta sotto i riflettori, ma al tempo stesso profondamente libera, inquieta, in cerca della sua strada. La sua sparizione ha aperto un buco nella memoria collettiva, perché sembrava impossibile che una figura così familiare potesse semplicemente svanire. Maria Teresa Novara, invece, è un caso meno noto, ma altrettanto emblematico. Una donna che sparisce nel nulla, in un contesto quotidiano, senza clamore, senza risposte. Ho voluto accostare queste due storie proprio per mostrare i due volti dell’invisibilità: da un lato, quella mediatica e quasi mitizzata; dall’altro, quella silenziosa, che scivola via nel tempo e rischia di essere dimenticata. Entrambe, però, rappresentano una stessa ferita aperta: quella di chi aspetta”.

Secondo lei, quanto c’è di vero e quanto di leggendario nella vicenda della saponificatrice di Correggio?

“Credo che nel caso di Leonarda Cianciulli ci sia un cortocircuito molto italiano tra realtà giudiziaria e immaginario popolare. I delitti ci sono stati, questo è indiscutibile. Ma tutto il resto - la saponificazione, i dolci offerti ai vicini, i rituali magici - è una miscela di quello che lei ha raccontato, di ciò che la stampa ha amplificato e di quello che la gente voleva credere. La sua storia racconta più il nostro bisogno di mostri che non il profilo reale dell’assassina”.

Quando si parla del delitto di Novi Ligure ci si concentra su tanti argomenti. Ha voluto approfondire nella chiosa finale il perdono del padre di Erika, Francesco De Nardo. Perché?

“Perché in una vicenda così dura, quasi insostenibile da raccontare, il gesto di Francesco De Nardo rappresenta l’unico elemento che non parla di morte, ma di resistenza umana. Ha scelto la via più difficile e più silenziosa: quella di restare. Non per negare ciò che è successo, ma per non perdere completamente ciò che gli era rimasto. Mi sembrava giusto che in mezzo a tante storie di violenza, ci fosse anche uno spazio per qualcosa che va oltre: la complessità dei legami familiari, il dolore che non divide ma - incredibilmente - tiene uniti. È una scelta che non giudica e non assolve, ma che ci obbliga a porci domande più profonde su cosa significhi davvero essere genitori, e su come si sopravvive a un dolore che non ha paragoni”.

Come mai non sono state accluse immagini specifiche nel capitolo dedicato alle Bestie di Satana?

“È stata una scelta sia pratica che editoriale. Da un lato, il caso delle Bestie di Satana è sempre stato circondato da un certo livello di oscurità anche visiva: i protagonisti erano molto attenti a non esporsi, a non farsi fotografare, e nel corso delle indagini sono emerse pochissime immagini pubbliche realmente utilizzabili. Quindi, a livello di repertorio visivo, c’era oggettivamente poco. Dall’altro lato, c’era anche un tema di diritti e di rispetto. Molte delle poche immagini esistenti sono ancora vincolate da copyright o coinvolgono persone che oggi hanno scelto il silenzio, o che sono state coinvolte indirettamente. Per questo abbiamo deciso di non forzare la mano”.

Perché dopo aver letto la storia di Milena Quaglini il lettore è spinto a interrogarsi profondamente sulla natura del crimine?

“Perché la storia di Milena Quaglini mette in crisi gli schemi tradizionali con cui siamo abituati a guardare il crimine: colpevole e vittima, bene e male, giustizia e vendetta. Milena uccide, è vero. Ma quando si scava nella sua vita, si scopre una lunga catena di abusi, violenze, silenzi e mancate protezioni. È una donna che ha subito, che ha cercato di chiedere aiuto, che è rimasta intrappolata in relazioni tossiche. E a un certo punto ha reagito. Male, nel modo sbagliato, tragico. Ma ha reagito. La sua storia spinge il lettore a farsi domande scomode. Milena non è un simbolo da assolvere, né un mostro da condannare.

È una figura tragica che ci ricorda quanto siano sottili i confini tra colpa e sofferenza, tra reazione e disperazione. Raccontare la sua storia serve proprio a questo: a farci uscire dalle certezze, e a guardare il crimine non solo come un atto, ma come un processo umano e sociale che a volte è più vicino di quanto vorremmo pensare”.

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