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Chi era il Libanese? Cosa nasconde la scia di sangue

Il Libanese, il Dandi e il Freddo. Sono loro in Romanzo Criminale i protagonisti della malavita romana degli anni '70. Ma cosa si nasconde dietro a omicidi, traffici illeciti e sparatorie descritte in libri e film? Ecco la vera storia della Banda della Magliana

Chi era il Libanese? Cosa nasconde la scia di sangue

Libanese, Freddo e Dandi. Sono loro i capi della banda che in Romanzo Criminale conquista Roma, a colpi di omicidi, minacce e lotte. Soprannomi diventati ormai noti grazie a romanzi, film e serie televisive, che prendono spunto dagli avvenimenti della malavita romana: "Si parte da un fenomeno reale - ha spiegato a IlGiornale.it la giornalista investigativa Angela Camuso, autrice del libro Mai ci fu pietà, che ricostruisce le vicende della banda - ma poi l'arte, la fantasia e la scrittura hanno fatto il loro lavoro. Si tratta di un'elaborazione artistica di una realtà". Nascosta tra le trame di film e romanzi, però, emerge la storia del gruppo criminale che sconvolse la Capitale e che ha cambiato per sempre la criminalità romana. Il Libanese, il Freddo e il Dandi sono ispirati a Franco Giuseppucci, Maurizio Abbatino ed Enrico De Pedis, che alla fine degli anni Settanta furono tra i fondatori di un'organizzazione criminale, come non se n'erano mai viste prima nella Capitale: la Banda della Magliana.

Prima le batterie, poi la Banda della Magliana

Roma. Anni Settanta. I criminali locali si dedicavano a traffici minori, come furti, estorsioni, gioco d'azzardo e qualche rapina. A farla da padrone nella Capitale erano invece i Marsigliesi, il clan arrivato dalla Francia, che gestisce gli affari più redditizi, come il traffico di stupefacenti e i sequestri di persona. Nel 1976 l'arresto dei principali boss dei Marsigliesi creò un vuoto nella malavita romana, che permise ai criminali locali di abbandonare il loro "ruolo marginale" e sostituire la mafia francese. Per questo, i romani iniziarono a organizzarsi in batterie, associazioni criminali formate da poche persone che si dedicarono al controllo di una sola zona della Capitale: "All'epoca la città era organizzata in batterie, divise territorialmente o per settori, specializzate in rapine o altri traffici - ha raccontato la giornalista Camuso - Ma a un certo punto i romani che contavano nel campo della criminalità decisero di unirsi".

Tra i malavitosi c'era anche Franco Giuseppucci, detto Er Fornaretto (poi soprannominato anche Er Negro): a lui le varie batterie affidavano le proprie armi, che venivano custodite in una roulotte parcheggiata al Gianicolo. Il nascondiglio però venne presto scoperto dai carabinieri, che arrestarono Giuseppucci: restò in carcere per qualche mese. Quando uscì, Er Fornaretto ricominciò con la sua attività. Fino al giorno in cui qualcuno gli rubò il maggiolino Volkswagen a bordo del quale aveva nascosto le armi affidatigli da un altro criminale locale: Enrico De Pedis detto Renatino. Dopo alcune ricerche, Giuseppucci scoprì che le armi erano state acquistate da un criminale locale che operava nella batteria di Maurizio Abbatino detto Crispino, e andò da lui per reclamarle. "Fu questa l'occasione nella quale conoscemmo Franco Giuseppucci - ha raccontato nel corso di un interrogatorio proprio Abbatino -il quale si unì a noi che già conoscevamo Enrico De Pedis cui egli faceva capo, che fece sì che ci si aggregasse con lo stesso". Così invece di riprendersi le armi di De Pedis, Er Fornaretto strinse un'alleanza con gli altri due membri della mala romana e si formò una banda, caratterizzata da un maggior numero di partecipanti e da vincoli più stretti tra di essi, che comprendono fedeltà e solidarietà tra i componenti. La differenza tra la banda e la batteria, oltre al maggior numero di membri e di interessi, sta anche nel vincolo di fedeltà e aiuto reciproco: "Si formò questa organizzazione - spiega Angela Camuso - fatta di mutua solidarietà, secondo cui ciascun membro doveva ritenersi responsabile delle azioni degli altri e avrebbe dovuto aiutare chi finiva in carcere e le famiglie dei detenuti".

Alla banda si unì poi anche il gruppo capeggiato da Nicolino Selis detto Er Sardo che, come riferito da Antonio Mancini (membro della banda che si pentirà e collaborerà con gli inquirenti), già nel 1975 progettava mentre era in carcere la nascita di un'organizzazione criminale sulla base di quella fondata da Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra Organizzata. Con Cutolo Selis aveva stretto anche un contatto, che sarà utile al gruppo negli anni successivi, per l'espansione del traffico della droga. Oltre all'appoggio della camorra, la nuova organizzazione potè godere anche del sostegno della mafia siciliana, in particolare nella persona di Pippo Calò. "Eravamo noi della Magliana a tenere i rapporti con Raffaele Cutolo - spiegherà poi Maurizio Abbatino - mentre il gruppo di De Pedis era più vicino ai siciliani. Prima a Stefano Bontade e poi a Pippo Calò. Con i calabresi, i Piromalli e i De Stefano, c'era una collaborazione... ma non ricordo rapporti di affari. Ci facilitavano i contatti con persone importanti".

A spiegare come avvenne il consolidamento tra i vari gruppi fu sempre Abbatino, durante un interrogatorio, come precisato nell'ordinanza di rinvio a giudizio pubblicata da Notte criminale: "Negli anni 1978-1979, unitamente a Franco Giuseppucci (detto il 'Negro'), Giovanni Piconi, Enzo Mastropietro, Emilio Castelletti, Renzo Danesi (detto 'El Caballo'), Giorgio Paradisi e Marcello Colafigli, costituivamo una banda dedita inizialmente alle rapine; ben presto tale attività alquanto redditizia ci consentì di passare a lavorare la cocaina. A seguito dell'accresciuta forza del nostro gruppo, poiché si offriva l'occasione di allargare i campi di interesse al settore dell'eroina, attraverso Franco Giuseppucci, venne stabilito un collegamento operativo tra il nostro gruppo e quello di Nicolino Selis, che agiva in Acilia, e del quale facevano parte Fabrizio Selis, Edoardo Toscano (detto 'Operaietto'), Fulvio Lucioli, Giovanni Girlando (detto 'Gianni il Roscio'), Libero Mancone, Vittorio Carnovale (detto il 'Coniglio') e Giuseppe Carnovale (detto il 'Tronco'), nonché Roberto Frabbetti".

Così, alla fine degli anni Settanta, l'aggregazione delle diverse batterie dedite al controllo dei vari quartieri della Capitale, diede vita alla Banda della Magliana, un'organizzazione criminale in espansione formata da decine di personaggi appartenenti alla malavita romana, che prendevano parte alle decisioni insieme. "La banda della Magliana non ha mai avuto un capo - ha spiegato la giornalista investigativa Angela Camuso - c'erano tanti capi che però erano anche soldati: non c'era una divisione di ruoli. C'è sempre stato invece un gruppo di personaggi, che avevano la stessa voce in capitolo".

Dal debutto alla conquista di Roma

Inizialmente la banda si dedicò sostanzialmente ai traffici minori, soprattutto rapine. Il vero salto avvenne nel novembre del 1977, con il sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. Per portare a termine il rapimento e soprattutto per gestire la custodia dell'ostaggio, la Magliana si rivolse alla banda di Montespaccato. "Io, Giuseppucci, Piconi, Castelletti, Danesi, Enzo Mastropietro, Paradisi e “Bobo” dovevamo curare e curammo le fasi preparatorie del sequestro, nel corso delle quali si unì a noi anche Marcello Colafigli, conosciuto dal Giuseppucci, che procurò il cloroformio utilizzato per il rapimento - spiegherà Abbatino - Il ricettatore amico di Paradisi doveva tenere, come in effetti tenne, i contatti con la famiglia del Grazioli. Quelli di Montespaccato dovevano custodire, come in effetti fecero, per qualche tempo l’ostaggio".

Dopo il sequestro alla famiglia del duca arrivò la prima richiesta: dieci miliardi di lire per riabbracciare il proprio caro. Il contatto finale si ebbe il 14 febbraio 1978 e venne stabilito il pagamento di due miliardi di lire. Tramite una sorta di caccia al tesoro, il figlio dell'ostaggio pagò il riscatto, ma Massimiliano Grazioli non fece mai ritorno a casa: venne ucciso, stando a quanto riferito da Abbatino, dalla banda di Montespaccato, perché aveva visto in faccia uno dei carcerieri. La somma derivata dal riscatto venne divisa in parti uguali tra i gruppi che avevano partecipato al sequestro e la Banda della Magliana utilizzò parte di quel denaro per allargarsi in nuove attività. Il resto era diviso tra i membri, ognuno dei quali riceveva la "stecca para", cioè un guadagno fisso a prescindere dal ruolo avuto nel sequestro.

Per poter estendere il proprio controllo su Roma, i membri della banda iniziarono a ricorrere agli omicidi, eliminando sistematicamente i propri avversari: "All'inizio - spiega la giornalista Camuso - ci furono una serie di omicidi, perché c'erano gruppetti criminali di Roma che non volevano sottostare alla banda". Uno dei primi a cadere fu Franco Nicolini, che gestiva il traffico delle scommesse clandestine all'ippodromo, affare che aveva suscitato l'interesse della banda, decisa a espandersi anche in quel campo: il 25 luglio del 1978, Nicolini venne avvicinato da due membri dell'organizzazione criminale mentre si trovava nel parcheggio dell'ippodromo e venne ucciso a colpi di pistola.

Ma la mossa che permise agli uomini della Magliana di conquistare la Roma criminale fu l'alleanza con la Nuova Camorra Organizzata e con la mafia siciliana, che consentirono ai criminali romani di mettere le mani sul traffico di stupefacenti. Nel 1978, la Banda venne in contatto con Raffaele Cutolo e attivò un canale con i camorristi per la fornitura di sostanze stupefacenti. Stessa cosa fecero con la mafia siciliana: "Avevano fatto un'alleanza con la mafia siciliana, attraverso Pippo Calò, uomo che era stato mandato da Cosa Nostra a Roma per riciclare i soldi, che fece arrivare dalla Sicilia i carichi di eroina. Così monopolizzarono il mercato dell'eroina su Roma". Lo smercio della droga era organizzato tramite una rete di spacciatori, che operavano a vari livelli: piccoli pusher attivi a livello locale facevano capo a spacciatori di livello medio, che a loro volta erano in contatto coi membri della banda. Impossibile, infatti, spacciare droga senza prima passare da quelli della Magliana: "A quel punto - spiega la giornalista Camuso - tutte le organizzazioni furono inglobate nella manovalanza della Banda: o compravi la droga dalla Banda o venivi ucciso". "Già nel 1979, c'eravamo estesi su tutta Roma. L'approvvigionamento della droga non era più un problema", dirà poi Antonio Mancini. Ogni gruppo controllava una zona di Roma. In particolare, il Testaccio era sotto il dominio di Abbruciati e Giuseppucci, Trastevere, Torpignatta e Centocelle era controllato da De Pedis, Magliana, Eur e Monteverde facevano capo ad Abbatino, Ostia, Acilia e la Garbatella erano controllate rispettivamente da Selis, Edoardo Toscano e Claudio Sicilia.

Così la Magliana arrivò a controllare tutta Roma grazie alla "forza economica" raggiunta prima con le rapine e i sequestri poi col traffico di droga: "Loro avevano i capitali dei sequestri di persona, che vennero investiti nell'eroina. Da lì nacque la potenza della banda", specifica la giornalista Camuso. Un altro punto di forza della Banda era costituito dalle alleanze con le altre mafie e dai legami con i poteri forti, tra cui politici e funzionari (al Ministero della Sanità venne trovato un deposito di armi della Banda), i servizi segreti deviati, i Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar), di cui faceva parte Massimo Carminati, diventato anche membro della Banda, e personalità operanti attorno al Vaticano, tanto che fu ipotizzato un coinvolgimento della banda nel caso Orlandi. Quelli furono gli anni del sequestro di Aldo Moro, rapito il 16 marzo del 1978 dalle Brigate Rosse (il pentito Abbatino rivelerà: "Cutolo ci ha mandato un personaggio politico a parlare per vedere se sapevamo dov'era il covo di Moro"), dell'omicidio di Mino Pecorelli e della strage di Bologna. Si tratta dei più grandi misteri italiani, ancora senza una soluzione certa, attorno ai quali sembrarono orbitare anche i membri della Magliana, che in quegli anni dominava tutta la malavita romana: "A un certo punto - ricorda la giornalista - la Banda diventa una sorta di agenzia del crimine per cui chi veniva a Roma e voleva entrare nell'ambiente criminale doveva passare da loro".

Le lotte interne e il declino

Per anni la banda continuò indisturbata i suoi traffici. Tutta la criminalità romana faceva capo a quelli della Magliana. La situazione iniziò a cambiare con la morte di Franco Giuseppucci, il 13 settembre del 1980: quel giorno un colpo di pistola lo raggiunse mentre si trovava a piazza San Cosimato, nel cuore di Trastevere. A uccidere Er Negro fu uno dei membri della famiglia Proietti, clan rivale alla banda, che aveva subito un duro colpo con la morte di Nicolini, dato che si era ritrovato privato dei propri traffici. La morte di Giuseppucci, uno degli ideatori della Banda, diede il via a una lotta con il clan rivale, che portò con sé una lunga scia di sangue, conclusasi con la morte dei fratelli Proietti. Dopo aver vendicato Er Negro però i due gruppi principali della banda iniziarono una lotta interna: da una parte c'era la Magliana guidata da Maurizio Abbatino, dall'altra i Testaccini di Danilo Abbruciati e Enrico De Pedis. Questi ultimi in particolare avevano intensificato le loro collaborazioni con politici e coi poteri forti, diventando una sorta di holding criminale al servizio dei potenti. "A un certo punto - ricorda la giornalista Camuso - c'è stata una divisione tra i vari personaggi e lì è stato l'inizio della fine".

La morte di "Renatino"
La morte di "Renatino"

C'era un altro componente della Banda, che aveva deciso di mettersi di traverso: Nicolino Selis. "Questi era entrato in contatto con dei siciliani, i quali gli avevano assicurato la fornitura di tre chilogrammi di eroina - racconterà il pentito Abbatino -Secondo gli accordi, tale fornitura avrebbe dovuto essere ripartita al 50% tra il suo e il nostro gruppo, ma Nicolino ritenne di operare una ripartizione di due chilogrammi per i suoi e di uno per noi e, pertanto, impartì al Toscano istruzioni in tal senso. Si trattò di un passo falso: Edoardo Toscano non attendeva altro. Mi mostrò immediatamente la lettera, fornendo così la prova del 'tradimento' del Selis, col quale diventava non più rinviabile il 'chiarimento'. In altre parole, Nicolino Selis doveva morire". E così avvenne. Il 3 febbraio del 1981, infatti, Er Sardo venne assassinato e il suo corpo, mai ritrovato, venne sepolto in una buca sull'argine del Tevere.

Intanto iniziavano a farsi avanti i primi pentiti. Il primo a percorrere questa via fu Fulvio Lucioli, detto Er Sorcio, che venne arrestato nel maggio del 1983 e raccontò di rapine, omicidi, traffici di stupefacenti, legami della banda con mafia e camorra e con politici, massoni e Nar. Grazie alle sue dichiarazioni e a quelle di Claudio Sicilia, altro membro del gruppo, vennero arrestate una sessantina di persone, 37 delle quali ottennero una condanna in primo grado per traffico di sostanze stupefacenti, che venne poi annullata e tutti verranno assolti.

Le tensioni interne alla Banda non si erano ancora placate e l'atteggiamento di Enrico De Pedis le aveva anzi accentuate. Il boss dei Testaccini infatti intensificava sempre di più gli affari con la mafia, i politici e uomini potenti, investendo parte dei proventi in attività legali e rifiutandosi di dividerne il ricavato. Per questo gli uomini della Magliana decisero di ucciderlo: il 2 febbraio 1990, mentre era a bordo del suo motorino, diretto verso casa, Renatino venne affiancato da una moto. A bordo due killer assoldati per ucciderlo gli spararono un colpo alle spalle. Così anche il terzo tra i membri fondatori dell'organizzazione criminale venne assassinato.

Il pentimento di Abbatino

Nel maggio 1983, Maurizio Abbatino, membro di spicco dell'organizzazione criminale e sopravvissuto alla sanguinosa lotta interna, venne arrestato. Per non rimanere nel carcere di Rebibbia, Crispino si finse gravemente malato e venne trasferito in una clinica all'Eur, con una falsa diagnosi di tumore osseo in stato avanzato, a causa del quale fece credere di essere rimasto paralizzato. Il 20 dicembre del 1986 Maurizio Abbatino scappò dalla clinica e fuggì in Sud America: "A Roma si era aperta una caccia all'uomo mai vista - racconterà Crispino - Mi cercavano ovunque. Falsificai un passaporto sottratto a un amico di mio fratello e passai il confine con la Svizzera. Poi da Ginevra mi imbarcai su un volo per Rio de Janeiro". Da lì poi si spostò in Venezuela, dove venne individuato alla fine del 1991 dalla Squadra Mobile e dalla Criminalpol, che da anni gli davano la caccia. Il 24 gennaio del 1992, Maurizio Abbatino venne arrestato e nell'ottobre dello stesso anno venne estradato in Italia. Finì così la fuga di uno dei membri della Banda della Magliana.

Ma, una volta catturato, Abbatino decise di collaborare con gli inquirenti, probabilmente per vendicarsi degli ex compagni che lo avevano lasciato solo e avevano ucciso suo fratello, e iniziò a rivelare nomi, traffici e azioni criminali della banda. Il 16 aprile del 1993 scattò a Roma l'Operazione Colosseo, che prevedeva l'azione di 600 agenti tra Criminalpol, Digos e Squadra Mobile: 69 furono gli ordini di cattura firmati dal giudice istruttore Otello Lupacchini, che in mano aveva un fascicolo ricco di date, nomi e informazioni sull'organizzazione criminale. A finire in manette furono, tra gli altri, anche Antonio Mancini, Massimo Carminati ed Enrico Nicoletti (cassiere della banda). Molti, nel 1995 torneranno in libertà, per scadenza dei termini di custodia cautelare. Ma le rivelazioni del Crispino, che confermarono quelle dei primi pentiti, si sommeranno a quelle di Antonio Mancini e Fabiola Moretti e porteranno al primo vero maxiprocesso che vide sul banco degli imputati l'intera organizzazione criminale.

Una storia ancora aperta

Mezzibusti di Romanzo criminale - La serie apparsi all'Eur

Oggi la Banda della Magliana "storica" non esiste più e i suoi membri sono morti o sono stati arrestati. Qualcuno, come Abbatino e Mancini, è diventato un collaboratore di giustizia. Grazie alle rivelazioni del Crispino, si aprì nel gennaio 1995 il processo per il sequestro e l'omicidio del duca Grazioli, riconosciuto come il primo vero atto della Banda della Magliana. Ma l'intera banda finì sotto accusa nell'ottobre del 1995, quando in un'aula bunker allestita appositamente, prese il via il maxiprocesso contro 98 imputati: tra i capi di imputazione figuravano i reati di traffico di sostanze stupefacenti, riciclaggio, omicidio, rapina e associazione a delinquere di stampo mafioso. Nel giugno del 1996, il pubblico ministero Andrea De Gasperis chiese condanne per un totale di quasi 500 anni di carcere. La Corte decise per la condanna all'ergastolo di alcuni membri della banda, ad altri vennero imposte decine di anni di carcere, mentre qualcuno se la cavò con 4-6 anni di detenzione. La Corte d'Assise d'Appello confermò sostanzialmente le condanne di primo grado, applicando qualche riduzione di pena, ma la Cassazione decise di rinviare il tutto, per valutare nuovamente l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Così la seconda Corte d'Assise di Roma stabilì che la Banda della Magliana non poteva essere considerata associazione di stampo mafioso e tutte le condanne vennero ridotte.

Nonostante i pentimenti e le condanne, tracce della presenza della Banda sono ancora visibili nella malavita della Capitale. "Non è che i soldi sono spariti quando sono iniziati gli arresti o gli omicidi dei membri - spiega la giornalista Angela Camuso - i capitali sono rimasti e sono stati reinvestiti nelle attività commerciali di Roma, sono rimasti in circolo. È evidente che qualcuno li ha gestiti. Lo zoccolo duro della criminalità è rimasto ed è sempre lo stesso. Magari sono morti i padri e sono rimasti i figli, ci sono state nuove alleanze, ma il meccanismo di lavoro sulla piazza romana è sempre quello". Lo strascico della banda si è visto col processo Mafia Capitale: "Massimo Carminati non è comparso all'improvviso sulla scena romana, lui ha continuato a lavorare nell'ambito criminale. Pensiamo anche ai Casamonica: loro erano il braccio della banda per il recupero crediti. E Nicoletti ha continuato a essere un punto di riferimento per le operazioni di riciclaggio e per i prestiti a strozzo". Sulla scena romana, precisa Camuso, sono rimasti "una serie di personaggi che hanno continuato a mantenere il controllo su alcuni settori di attività. Ora che si chiami Banda della Magliana, mafia romana o criminalità romana è la stessa cosa: sono sempre loro".

I membri storici dell'organizzazione criminale che ha dominato Roma sono stati arrestati o sono morti, ma all'intera

vicenda non può essere messa la parola fine, anche perché la storia della Banda della Magliana si intreccia con i più grandi misteri italiani, mai risolti: "È una storia che non è mai finita", conclude Camuso.

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