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Il consenso e il diritto

Per qualche tempo è passata l'idea che bastasse scrivere "consenso pieno, esplicito e attuale" per fare giustizia e adeguarsi a una sorta di format globale e identitario

Il consenso e il diritto

Qualcuno ha scambiato un accordo politico che doveva allinearci all'Occidente (l'intesa Meloni-Schlein sul libero consenso) per un lasciapassare che stava per partorire un mostriciattolo giuridico, ma che, soprattutto, rischiava di far schiantare due norme (femminicidio e "consenso") contro la Corte Costituzionale: qualcosa che avrebbe azzerato il dibattito e riservato una figuraccia politica a tutti. Questo potrebbe ancora succedere, perché, semplicemente, è già successo: nel 2010 la Consulta demolì la cosiddetta "Legge Carfagna" che prevedeva l'arresto obbligatorio per i presunti stupratori (manette subito, in fase preliminare) ossia un automatismo penale elaborato frettolosamente e perciò dichiarato incostituzionale, in quanto violava gli articoli 3 e 13: la Corte scrisse che togliere discrezionalità al giudice con un automatismo di legge, allora come oggi, non trovava posto nello Stato di diritto; nel 2013, ancora, applicò lo stesso principio alla violenza sessuale di gruppo. Poi c'è un secondo caso: nel 2012, Mara Carfagna e Giulia Bongiorno (la quale, oggi, è alle prese con la legge sul consenso) presentarono il disegno di legge 5579 che introduceva il reato di femminicidio da punire improbabilmente con l'ergastolo: non se ne fece nulla, ma erano comunque delle scorciatoie identitarie che non stavano in piedi tecnicamente, e che cavalcavano delle onde emotive per risolvere dei fenomeni complessi. È strano che nessuno si sia chiesto se il tempo abbia portato consiglio. Così pure sembrava strano, e sospetto, che la nuova legge sul consenso stesse apparentemente mettendo d'accordo fronti inconciliabili come i progressisti woke Laura Boldrini, Alessandro Zan e Giulia Pastorella (più Amnesty International, più varie associazioni femministe, più militanze mediatiche come quelle di Internazionale, Elle, Marie Claire, roba così) con ambienti governativi rappresentati per esempio da Carolina Varchi (consigliera giuridica di Giorgia Meloni) e la ministra per le Pari Opportunità Eugenia Roccella. Sta di fatto che per qualche tempo è passata l'idea che bastasse scrivere "consenso pieno, esplicito e attuale" per fare giustizia e adeguarsi a una sorta di format globale e identitario, un conformismo che si è spinto ad attribuire la sospensione della legge sul consenso, nei giorni scorsi, a sciocchezze come gli esiti delle elezioni regionali, anziché rilevare, più seriamente, che i dubbi sulla costituzionalità di queste leggi erano già stati espressi tra altri dall'Associazione magistrati, dalle Camere Penali, da accademici come Gian Luigi Gatta e Oliviero Mazza, da un costituzionalista come Andrea Pugiotto, dal Centro Studi Livatino, da svariate riviste di diritto, da personaggi come Maria Bernardini De Pace, da altri soggetti che in ogni caso, per mesi, quasi nessuno ha sondato o intervistato in virtù del momento storico favorevole alle "istanze di genere". Tutti dubbi che hanno fatto dimenticare di spiegare a che cosa potesse condurre una legge malfatta, e quindi gli effetti che avrebbe prodotto sui procedimenti e sulle indagini.

Ergo: meglio tardi che mai. A rompere la liturgia ha cominciato Matteo Salvini, subito trattato dalla sinistra come un troglodita, poi è arrivato il guardasigilli Carlo Nordio (stesso trattamento) sinché il problema è arrivato a Giorgia Meloni, che, pure, aveva dato il suo avallo politico ma non conosceva certo la norma nel dettaglio, com'è normale. Dopodiché la presidente del Consiglio, come pure è normale, ha incaricato le specialiste Carolina Varchi, Eugenia Roccella e Giulia Bongiorno perché approfondissero. Quest'ultima, come detto, conosce il problema per esserci inciampata. Carolina Varchi, penalista, testa tecnica di Fdi, è co-firmataria dell'emendamento sul "consenso" con la piddina Michela Di Biase: la sua firma, però, era stata un gesto politico, non un atto di fede a prescindere. È lei ad aver detto che il testo era malfatto e che era da riscrivere, da ripulire; Eugenia Roccella invece ha avuto la lucidità di dire che va evitato "il rischio di rovesciare l'onere della prova".

Ed eccoci: che cosa significa "rovesciare l'onere della prova"? L'ha già spiegato sul Giornale Gian Domenico Caiazza: se per giustificare un processo per stupro basterà denunciare una "mancanza di consenso", allora il processo servirà solo a dimostrare se questo consenso ci sia stato o no, fine: una deriva che è già prassi in qualche tribunale italiano (perché troppi magistrati fanno tutto quello che vogliono, sappiamo) e che il cristallizzare in una norma, ora, significherebbe consegnare a una futura incostituzionalità.

Può sembrare un discorso complicato, ma non lo è. Il consenso non è un pulsante da schiacciare: fa parte di una dinamica di relazione, può cambiare, o non farlo. La Corte di Cassazione, da anni, ha già sentenziato che il consenso deve essere "attuale" nel senso che deve esserci al momento dell'atto sessuale, ma non l'ha inquadrato tecnicamente come la legge voleva fare: non l'ha ossia "espresso come in un contratto". Tradurlo in un protocollo equivarrebbe a irrigidire ciò a cui serve la giurisprudenza: a trattare con flessibilità. Giudici e avvocati lo sanno meglio di tutti: la maggior parte dei processi per stupro implica valutazioni complesse, le famose narrazioni, la ricerca di riscontri e contesti, tante cose. Immaginare che una formula possa sostituirsi a questo significa non conoscere il diritto e forse neanche la vita. La norma che il governo sta cercando di cambiare (o così speriamo) non contemplava neppure, per dire, che un uomo in buona fede possa non comprendere che una donna, rimasta silente, abbia nel frattempo cambiato idea: una sorta di dovere di telepatia. Tutti gli addetti ai lavori, o quasi, hanno detto la stessa cosa: stavano per creare una bomba. E quasi ne dimenticavamo un'altra, di bomba: la "vulnerabilità" della donna, concetto che, se non definito con rigore, diventerebbe un elastico infinito. Quale vulnerabilità? Psicologica? Emotiva? Economica? Ma una vulnerabilità "economica" renderebbe punibile anche la prostituzione consensuale; una vulnerabilità "emotiva" renderebbe penalmente rilevanti, in potenza, metà delle relazioni affettive italiane.

Non stiamo neppure accennando alle false aspettative, ai processi interminabili, alle assoluzioni per vizi di forma, alle condanne ingiuste, ai traumi per le vittime, ai macelli per gli innocenti che tutto questo caos giudiziario porterebbe con sé. Insomma: in primis sono le donne italiane a non aver bisogno di bandiere ideologiche infilate nel Codice: perché hanno bisogno, semmai, di norme solide, chiare, costituzionali e applicabili: forse hanno bisogno, le donne italiane, anche di un legislatore che non ceda alla follia di pensare che un concetto complesso si possa risolvere con un aggettivo. E forse è andata così.

Le italiane hanno bisogno di politica adulta e calata nel reale, non di pedagogia morale e di stupidaggini sul patriarcato. Detto da chi ai talk show ci partecipa: il diritto penale non è un terreno da talk show, è un campo minato dove entri soltanto se sai dove mettere i piedi. Ed è quello che ci aspettiamo da un governo serio.

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