
Le guerre esistono, nostro malgrado. E l'Europa, che per decenni ha creduto di esserne ormai al riparo, si è trovata un conflitto alle porte dopo l'invasione della Russia di Putin nei confronti dell'Ucraina. Dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, il nostro continente aveva accelerato il progetto di un'Europa unita, proprio per garantire pace e prosperità. Oggi, però, le guerre che sembravano lontane si avvicinano: la crisi tra Iran e Israele, le tensioni in Africa, il sangue versato in Medio Oriente e a Gaza, alimentano il timore di un mondo sempre più privo di governo e di regole condivise. In questo scenario globale in subbuglio, si impone inevitabilmente per l'Unione europea la questione di una Difesa comune, quantomeno per tutelare quei valori fondanti democrazia, Stato di diritto, libertà, diritti umani, rispetto delle differenze che rischiano di essere travolti dai conflitti e dall'avanzata dei regimi autoritari. L'Europa ha davanti a sé un compito storico: continuare a battersi per questi principi, sapendo che difesa e protezione dello Stato sociale non sono alternative, ma due facce della stessa medaglia. È sbagliato contrapporle. Viceversa, devono andare di pari passo in questa fase storica. In quest'ottica, va interpretata anche la decisione della Nato di portare le spese militari al 5% del PIL. Un impegno che va considerato complementare alle azioni europee. Il Consiglio europeo di due giorni fa ha dimostrato che il dibattito è aperto sia sul cosiddetto ReArm Europe, sia sull'attuazione concreta delle decisioni dell'Alleanza Atlantica.
I Paesi dell'Unione europea, in quanto anche membri della Nato, sono chiamati a far luce su quell'impegno del 5% in dieci anni. Una cifra che poi diventa 3,5% perché bisogna escludere l'1,5% destinato a sicurezza civile, infrastrutture e industria. In parallelo è in atto una discussione sul ricorso a un nuovo debito comune europeo, con l'emissione di Eurobond e un possibile secondo Recovery Fund, nonché sulla necessità di allargare le clausole di flessibilità del Patto di Stabilità. Altrimenti, Paesi come il nostro rischiano di essere penalizzati da procedure per disavanzo eccessivo, proprio nel momento in cui si rende necessario un investimento collettivo sulla sicurezza. Siamo di fronte a una situazione in evoluzione, che richiederà una verifica nel 2029. È quindi prematuro, se non fuorviante, parlare già oggi di tagli automatici alla spesa sanitaria come conseguenza dell'aumento dei fondi destinati alla Difesa. Le spese militari, nei bilanci pubblici, sono infatti considerate perlopiù investimenti pluriennali, mentre la sanità rientra sostanzialmente nella spesa corrente annuale. Lo sappiamo bene noi parlamentari che, in passato, ci siamo battuti perché alcuni costi legati alla salute come quelli per i farmaci innovativi fossero equiparati agli investimenti, per avere margini di flessibilità a lungo termine. Il processo di impegno delle risorse sarà lungo e graduale: prima di ipotizzare tagli alla sanità in favore degli investimenti militari, occorre risolvere i nodi politici e normativi ancora aperti a livello europeo. Servirà molta politica, e buona politica, per costruire strategie condivise.
L'Europa ha però l'opportunità di togliersi di dosso quell'immagine di debolezza che sembra caratterizzarla. E può rivolgersi all'America di Trump per affermare che se il Vecchio Continente si assume maggiori responsabilità sul piano della difesa, allora è legittimo pretendere equilibrio anche nei rapporti commerciali, senza l'ombra di nuovi dazi.
Se le spese per la sicurezza coinvolgeranno sempre più anche ricerca e sviluppo, si potrà costruire una grande alleanza tra difesa e sanità, favorendo l'innovazione tecnologica e portando aiuti concreti alle popolazioni colpite dalla guerra, come avviene in parte già oggi. In questo modo potremo inaugurare un nuovo protagonismo europeo e italiano per la cura dei destini del mondo.