
Che cosa fare dell'Europa è la grande domanda politica cui dovremo trovare risposta nei prossimi tempi. La debolezza della quale il Vecchio Continente ha dato prova negoziando i dazi con Donald Trump, la sua scarsa capacità d'incidere sui principali dossier di politica internazionale, la fiacchezza delle leadership a Bruxelles e nelle capitali nazionali rappresentano altrettanti, drammatici campanelli d'allarme. Le ragioni della fragilità europea in termini di risorse naturali, capacità produttiva, futuro demografico è bene essere onesti sono strutturali e in larga misura irrimediabili. Ma se a tutto questo aggiungiamo pure l'inconsistenza politica, allora davvero non abbiamo più speranza. E nessun europeo può onestamente compiacersene.
Ancora oggi, molti commenti alla trattativa commerciale con gli Stati Uniti propongono la sempre maggiore integrazione in una direzione sostanzialmente federale come unica possibile soluzione alla questione europea. E identificano quindi nelle forze politiche cosiddette sovraniste, ostili al federalismo, il principale degli ostacoli, o quanto meno uno dei maggiori ostacoli, alla ritrovata grandezza del Vecchio Continente. Con tutto il rispetto, a me sembra che queste affermazioni non facciano altro che rinnovare la tradizione retorica dalla quale l'Europa è stata afflitta negli ultimi trent'anni, responsabile non ultima delle tristi condizioni in cui versiamo.
Credo sia storicamente esatto affermare che il federalismo europeo non ha mai avuto la minima chance. Tranne forse fra l'ottobre del 1950, nel quale René Pleven propose la costituzione di una Comunità europea di difesa, e l'agosto del 1954, quando l'Assemblea Nazionale francese affossò definitivamente il progetto. Dopo il 1954, per settant'anni, quella federalista non è stata un'ipotesi realistica, ma nel migliore dei casi un irraggiungibile modello ideale, nel peggiore uno stratagemma retorico. Per decenni, del resto, l'Unione europea è stata governata da forze europeiste non frenate da alcun euroscetticismo altro che marginale. Nelle quattro legislature europee elette fra il 1994 e il 2009 la somma dei seggi di popolari, socialisti e liberali a Strasburgo è costantemente rimasta al di sopra del settanta per cento. E sì, non si può dire che in quel ventennio l'integrazione europea non abbia fatto dei passi in avanti ma non c'è parimenti dubbio che l'obiettivo federale sia rimasto ben oltre l'orizzonte.
La piccola Europa che il Presidente Trump strapazza impunemente non nasce oggi, ma è il prodotto di questa storia. Una storia di interessi nazionali ammantati di illusioni federaliste in cui credeva davvero soltanto un pugno d'idealisti. Una storia di istituzioni comunitarie che hanno acquisito sempre più potere non bilanciato tuttavia da pari responsabilità politiche, e che lo hanno esercitato pertanto inseguendo troppo spesso le proprie stesse retoriche invece della realtà. Basti pensare alla catastrofe del Green Deal. A questo quadro desolante gli europeisti reagiscono, come si diceva sopra, affermando che l'errore di fondo è stato precisamente non prendere il federalismo sul serio e che l'ovvia soluzione è rimediare il prima possibile a quell'errore. Ma se il federalismo non è stato preso sul serio non è stato per un qualche capriccio del destino, bensì per l'azione di forze storiche potenti. Che nel frattempo non solo non sono venute meno ma in questo caso sì, anche con lo sviluppo dei cosiddetti sovranismi si sono ulteriormente irrobustite. Chi oggi propone l'integrazione come la panacea di tutti i mali dovrebbe spiegarci allora in quale modo quelle forze storiche possano esser finalmente superate, dimostrarci come e perché quello che per trenta lunghi anni è vissuto soltanto nelle retoriche dovrebbe oggi, all'improvviso, scendere nella realtà. E dovrebbe spiegarlo soprattutto all'opinione pubblica, la quale altrimenti non potrà che vedere nell'europeismo la mera prosecuzione delle strategie fallimentari che hanno portato von der Leyen a trattare con Trump da posizioni di patologica debolezza. Se segmenti crescenti di quell'opinione pubblica votano per i cosiddetti sovranisti, del resto, ci sarà ben una ragione. Con questo, però, abbiamo detto soltanto ciò che non siamo e ciò che non vogliamo, abbiamo detto che continuare a reclamare più Europa senza identificare un percorso realistico e credibile per raggiungerla significa rimanere prigionieri della trappola propagandistica che ci ha portato oggi a essere così fragili. Ma qual è l'alternativa? Qui i critici del sovranismo hanno ragione da vendere: fedeli alla loro natura reattiva, oppositiva, i sovranisti non hanno in realtà un'idea di Europa.
Oscillano fra la soppressione dell'Unione e l'enfasi sull'idea gollista dell'Europa delle patrie, ovvero fra una follia e quello che in assenza di strategie concrete, in un continente nel quale Francia, Germania e Italia non riescono a concordare nemmeno una letterina sull'automotive resta solo un altro slogan. Ecco, allora, di che cosa ci sarebbe davvero bisogno oggi: di un vero dibattito pubblico, pragmatico e realista, libero da vincoli ideologici e scevro di elucubrazioni utopiche, su che cosa fare dell'Europa.