
C'è un tono quasi materno e persino indulgente nell'ultima dichiarazione di Christine Lagarde sulla crisi francese. Di fronte a una situazione che definire "preoccupante" è esercizio di moderazione linguistica, la presidente della Bce ha preferito minimizzare: "Non è solo la Francia, tutti i governi europei affrontano difficoltà". Vero. Ma, come si dice a Parigi, ce n'est pas la même chose. Perché se è vero che l'Europa tutta è chiamata alla prova della sostenibilità fiscale, è altrettanto vero che il caso francese presenta elementi di fragilità unici: un deficit strutturale incamminato verso il 5,6%, un debito di oltre 3.300 miliardi quasi interamente nelle mani di investitori stranieri che galoppa oltre il 114% del Pil, tensioni sociali crescenti e, da qualche settimana, una crisi politica latente che rischia di tradursi in dramma istituzionale. Il tutto sullo sfondo di un governo che corre verso la sfiducia, come lo ha definito lo stesso ministro dell'economia transalpina, Éric Lombard, che perciò non ha escluso la possibilità che la Francia debba rivolgersi al Fmi qualora i conti dovessero peggiorare.
Lagarde, passaporto francese cucito all'interno della giacca, ha subito fatto scudo: "Fmi? Non mi sembra uno scenario realistico". Eccesso di ottimismo oppure riflesso identitario, quasi di protezione della grandeur nazionale? La domanda non è oziosa, soprattutto se messa a confronto con un altro celebre passaggio della carriera istituzionale della presidente Bce registrato il 12 marzo 2020. In quella occasione, con l'Italia che già combatteva in trincea contro il Covid e i mercati che tremavano per il rischio di una nuova crisi del debito, fu proprio Lagarde a pronunciare la frase rimasta scolpita nella memoria dei risparmiatori e nelle cronache di Borsa: "La Bce non è qui per chiudere gli spread". Una dichiarazione irresponsabile che in poche ore fece evaporare centinaia di miliardi di capitalizzazione, trascinando Piazza Affari in un fulmineo tracollo del 17%, il più grave dalla nascita dell'euro. Solo dopo un tempestivo intervento correttivo della stessa Bce, che fece mea culpa, tornò l'ordine sui mercati salvando, sebbene con un discreto ritardo, la credibilità dell'istituto.
Sicché stupisce il tono odierno. Lagarde sembra indossare un altro abito di fronte a un rischio sistemico in Francia che, se portato alle estreme conseguenze potrebbe rivelarsi destabilizzante per l'intera eurozona.
E qui l'analogia storica torna utile. Si pensi a Mario Draghi, che nel suo ruolo di presidente della Bce non risparmiò critiche all'Italia suo paese d'origine per lo scarso rigore nella contabilità pubblica. Fu lui, poco prima di approdare a Francoforte, a firmare insieme a Jean-Claude Trichet la famigerata lettera dell'estate 2011, che imponeva a Roma una correzione draconiana dei conti come condizione per il sostegno Bce.
Lagarde invece sembra incline a un approccio più familiare, per non dire patriottico. Ma un'istituzione come la Bce non è la sede per esercizi di clemenza nazionale. È chiamata a garantire la stabilità monetaria e finanziaria dell'intera area euro, non a dispensare indulgenze a seconda della bandiera.
E più la crisi francese si fa acuta, più questa ambiguità rischia di trasformarsi in boomerang: perché se Parigi deraglia e Francoforte fa finta di non vedere, il mercato potrebbe cominciare a dubitare non solo della Francia, ma della stessa Banca centrale.