Scena del crimine

Quell'uomo sulla gru e i killer barricati: "Così salvo vite umane"

Un ruolo non semplice quello di un professionista che interviene per aiutare chi minaccia di suicidarsi o compiere una strage. Il maresciallo maggiore Paolo Giaminardi racconta la sua attività a IlGiornale.it

Quell'uomo sulla gru e i killer barricati: "Così salvo vite umane"

Il militare negoziatore: una figura il cui nome appare riduttivo ai più, al contrario invece della sua attività che è molto nota. Si tratta infatti di una figura speciale appartenente alle Forze Armate che viene addestrata per agire in quei contesti di emergenza operativa in cui occorre far desistere le persone dal compiere il gesto estremo del suicidio. Si pensi ad esempio ai killer che dopo aver commesso un omicidio si barricano in edifici minacciando di uccidersi, o anche semplicemente, a quelle persone che in crisi per motivi personali vogliono farla finita o, a chi, affetto da disturbi mentali, non si trova nelle condizioni di distinguere il bene dal male. La casistica è piena di questi fatti e il militare negoziatore ha proprio la funzione di scongiurare il tragico epilogo di questi eventi attraverso la sua attività di mediazione.

Negoziatore militare non ci si diventa semplicemente per passione. Occorre infatti aver frequentato un corso di studi all’Istituto Superiore di Tecniche Investigative dei carabinieri di Velletri per ottenere l’abilitazione. Un corso formativo in cui si studia psicologia, psichiatria, sociologia, tecniche della comunicazione e criminologia. Ma cosa fa questo professionista durante il suo intervento? Come agisce? “Sicuramente – afferma il maresciallo maggiore Paolo Giaminardi - l’aspetto chiave di ogni negoziatore è l’empatia. Senza, si perde già in partenza”. Giaminardi, in servizio al Comando provinciale di Torino nel Reparto Operativo - Nucleo Investigativo, racconta a IlGiornale.it alcuni aspetti fondamentali del suo ruolo di negoziatore militare.

Qual è la prima cosa da valutare quando ci si trova di fronte a una persona che minaccia di farla finita?

“I fondamenti acquisiti durante il corso (effettuato sotto la supervisione dei negoziatori di 2° livello del Gruppo intervento speciale di Livorno) all’Isti di Velletri e la decennale esperienza 'sul campo', ci ha insegnato che se abbiamo avuto il tempo di raggiungere la persona in difficoltà, denominata comunemente Sic (soggetto in crisi) è perché la stessa non ha piena volontà di suicidarsi o meglio la considera solamente una possibilità, secondo il suo punto di vista, l’unica da intraprendere. Il nostro compito è di capire nel più breve tempo possibile che cosa può aver causato la scelta di tale opzione e quindi cercare di farle vedere una soluzione diversa, che forse non aveva preso in considerazione. Bisogna precisare però che ogni negoziazione operativa intrapresa è sempre differente dalle precedenti, anche se, apparentemente, presentano le stesse identiche caratteristiche. Ciò che le fa costantemente variare è il fattore umano”.

Quali le prime parole che dite e il primo approccio che attuate con queste persone?

“Fondamentale è la presentazione, far capire chi siamo, come ci chiamiamo (per permettere loro di interloquire direttamente con noi) e perché ci siamo presentati in quella circostanza. Insomma, come per tutte le relazioni sociali, ci si deve conoscere prima di entrare in intimità e i primi approcci sono quelli, diciamo, standard: ‘come mi chiamo’, ‘come ti chiami’, ‘qual è il mio ruolo’. Immediatamente dopo si passa al motivo per cui siamo sul posto, ovvero per fornire un aiuto e per capire le motivazioni che hanno spinto il Sic a intraprendere tale azione”.

In quel dialogo in cui si gioca tutto, qual è l’aspetto che diviene di fondamentale importanza?

“Sicuramente l’aspetto chiave di ogni negoziatore è l’empatia. Senza, si perde già in partenza. Può sembrare strano, ma se non sia ha a cuore realmente la situazione del Sic, non si potranno mai comprendere le ragioni per cui lo stesso ha fatto le scelte che lo hanno portato su un cornicione o sulla sommità di una gru. Solo avendo un concreto e reale interesse per le questioni che ci vengono raccontate possiamo comprenderle e, restando comunque ‘estranei’ e mai giudici, provare a fargli trovare, in autonomia, una via di fuga differente”.

In questo contesto che peso devono avere, rispettivamente, nervi saldi, sangue freddo e, appunto, empatia?

“Come ho detto in precedenza l’empatia è il fondamento della negoziazione. Ma ciò non vuol dire che dobbiamo immedesimarci ed entrare nel mondo del Sic. Basti pensare al fatto che spesso questi soggetti possono presentare delle alterazioni percettive della realtà, dovute a delle patologie psichiatriche ma anche all’abuso di sostanze stupefacenti o alcoliche. Bisogna essere interessati ma al contempo distaccati, avendo sempre ben presente il ruolo che rivestiamo e l’obiettivo che dobbiamo raggiungere. Non siamo medici, non siamo psicologi e non siamo psichiatri. Siamo delle persone che hanno, per carattere e per temperamento, l’indole a saper ascoltare e che grazie alle tecniche acquisite, riescono a far parlare i soggetti con cui hanno a che fare. Parlare serve a guadagnare tempo e ad acquisire informazioni, due aspetti di fondamentale importanza per poter effettuare una negoziazione operativa efficace e spesso, risolutiva".

Oltre a questo?

"Nervi saldi e sangue freddo debbono essere caratteristica insita in tutti gli appartenenti all’Arma. Ovviamente in situazioni di crisi come quelle che necessitano una negoziazione, a maggior ragione queste caratteristiche vengono messe sotto stress con un alto rischio di 'burn out', ossia la capitolazione in forma depressiva o peggio, alterata e violenta (verbale o fisica) da parte del negoziatore”.

Carabinieri in servizio

Durante questi momenti il pensiero va alla possibilità di un fallimento nella missione?

“Il fallimento è un’opzione che è presente in tutti i nostri momenti professionali e della nostra vita. Non esistono superuomini, quello che c’è nell’animo di un negoziatore è la convinzione di cercare di fare tutto il possibile, tutto quello che è nelle nostre capacità per cercare di fornire un aiuto al Sic".

Quanto durano i vostri interventi?

"A volte è sufficiente una piccola conversazione, qualche parola di conforto e in pochi minuti la via alternativa appare nella testa del Sic, altre volte ci vogliono giornate intere, ore e ore di negoziazione per fargli trovare ‘l’illuminazione’, altre volte il nostro operato è propedeutico all’intervento delle forze speciali, il Gis, ma fortunatamente sono casi rari e legati a situazioni particolarmente pericolose anche per la comunità stessa (rischio di esplosioni urbane, rischio per la vita di altre persone non legate direttamente alla vicenda stessa)".

Torniamo al fallimento.

"Il fatto che non si contempli come fallimento una negoziazione che non ha avuto esito positivo è dato dal fatto che le scelte che il Sic decide di fare le farà sempre per sua volontà e non per nostra, sia in maniera positiva che in maniera negativa. Come ho detto noi non siamo chiamati a risolvere i suoi problemi ma bensì ad aiutarlo a trovare una soluzione alternativa. Non è il nostro ruolo risolvere i suoi problemi, il nostro ruolo è risolvere la situazione di emergenza aiutandolo a trovare una via differente a quella intrapresa”.

Cosa si prova subito dopo? Sia nei casi positivi che in quelli andati male?

“L’aspetto emozionale ovviamente c’è, non siamo fatti di ferro e silicio quindi una negoziazione che ha avuto un esito positivo è senza dubbio motivo di orgoglio e di felicità, soprattutto per il fatto di aver potuto aiutare concretamente una persona in difficoltà. Nei casi più tragici ci si domanda sempre se si poteva fare diversamente o meglio. Di importanza fondamentale è il ‘defusing’ che spesso si fa insieme agli altri negoziatori del proprio reparto e a Torino siamo molto fortunati, siamo in tre. Se la negoziazione non ha avuto effetti di ‘burn out’ e si è certi e consapevoli di aver fatto il meglio possibile, si è 'sereni' almeno per quanto riguarda l’aspetto professionale. Purtroppo come per la scelta di abbandonare gli istinti suicidi, anche quello di portarli a compimento è il concretizzarsi di una volontà personale, libero arbitrio. Pertanto no, non abbiamo sensi di colpa se abbiamo operato nel modo migliore possibile”.

Dopo una missione di questo tipo, si chiude tutto lì o ci si porta dietro, almeno per qualche giorno una sorta di esame personale?

“Sicuramente l’attività sul campo ha degli strascichi emotivi e tecnici, anche solo per il fatto che tutto quanto si è messo in campo deve essere relazionato dettagliatamente al fine di lasciare traccia del nostro operato e fornire materiale di studio e comparazione sia al personale dell’Isti di Velletri, che ne studierà le dinamiche, sia al personale del Gis che analizzerà l’intervento per proporre modifiche e miglioramenti nei corsi successivi, e andranno a implementare i possibili 'scenari' delle esercitazioni per i nuovi negoziatori e per i nostri corsi di aggiornamento. Ripercorrere quanto fatto è quindi una sorta di autoanalisi, è una forma di autovalutazione che ci consente di rivedere fase per fase quello che abbiamo fatto e spesso fornisce degli spunti nuovi per migliorarci o per modificare determinati aspetti negoziali rendendoli, forse, più efficaci e risolutivi".

Ci sono anche i successi.

"Ovviamente il successo, come per tutti, è benzina per il nostro motore a differenza di un insuccesso che potrebbe creare una sorta di rifiuto a un nuovo intervento. Non è il nostro caso. Si è sempre pronti a trovare una nuova spinta quando c’è un’altra persona da aiutare, altrimenti non troverebbe nessuno con cui parlare e non ce lo possiamo permettere”.

C’è un caso che a oggi la fa ancora riflettere?

“Sì, e fortunatamente in tutti e due i casi la negoziazione ha avuto esito positivo. Mi sono ritrovato a negoziare, a distanza di alcuni anni, con lo stesso soggetto che per tutte e due le volte si era arrampicato su una gru, minacciando di gettarsi nel vuoto in quanto, secondo lui, la sua vicenda legata all’affidamento del figlio non era stata seguita con i dovuti modi e con la serietà che si aspettava dalle istituzioni. In entrambi i casi, dopo ore d’intervento, si è riusciti, insieme, a comprendere che nulla sarebbe cambiato con questo suo gesto e peggio, la vita del minore sarebbe stata terribilmente peggiore con un genitore solo".

Com'è finita?

"In questo caso l’empatia era al massimo livello avendo già fatto conoscenza con il Sic che si ricordava di me. Ma il successo è giunto in entrambi i casi perché non si sono mai fatte false promesse o utilizzati sotterfugi per cercare di risolvere il problema, bensì si è riusciti a dargli delle vie alternative che hanno alimentato la speranza di una decisione differente da parte degli organi preposti. Ormai sono passati più di 8 anni dall’ultima volta che ci siamo incontrati e, a quanto ne so, non è mai più salito su una gru.

Forse anche lui ha ottenuto quello che chiedeva senza effetti ‘collaterali’ per nessuno”.

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