Quando la morte va in diretta: cosa c'è dietro la "pornografia del dolore"

Stefano Cristante analizza come i media sono cambiati di fronte alla cronaca nera, seguendo forse le aspettative del pubblico: da Alfredino Rampi a Denise Pipitone

Quando la morte va in diretta: cosa c'è dietro la "pornografia del dolore"

Alfredino Rampi, Sarah Scazzi, Noemi Durini, Denise Pipitone. Sono i nomi di quattro bambini e ragazzi legati dalla cronaca nera e da una presunta ingerenza mediatica sulle loro storie, che ha innescato un interrogativo fondamentale: quali sono i limiti tra diritto di cronaca e invadenza della stampa? Per capirlo bisogna fare un passo indietro e andare per un attimo oltre i confini dell’Italia.

Nel 1980, quindi un anno prima della vicenda di Alfredino, Bertrand Tavernier girò un film dal titolo “La morte in diretta”. Il film di Tavernier raccontava di un’emittente pronta a documentare la morte di una donna a mo’ di reality show. E Tavernier previde così che il modo di fruire la televisione stava cambiando, soprattutto per quando riguarda il rapporto tra verità in diretta e dolore. Gli intellettuali, si sa, sono lungimiranti: forse qualcosa era nell'aria, forse qualcosa stava cambiando nei meccanismi della narrazione mediatica?

Il 10 giugno 1981 Alfredino precipitò in un pozzo nei pressi della seconda casa di famiglia nei pressi di Vermicino. La Rai mandò a reti unificate una lunghissima diretta di 18 ore che tenne incollato il pubblico allo schermo. Ma Alfredino non uscirà mai vivo da quel pozzo.

Il 26 agosto del 2010 scomparve invece ad Avetrana la giovanissima Sarah Scazzi. Il suo corpo sarà ritrovato solo il 6 ottobre successivo dopo la prima confessione dello zio Michele Misseri: l’annuncio del ritrovamento giunse alla famiglia quella stessa sera, durante una diretta di “Chi l’ha visto?”.

Anni dopo, nel settembre 2017, avvenne la sparizione di un’altra adolescente, Noemi Durini. Dopo giorni di ricerche e indagini, ci fu la confessione del suo killer, Lucio Marzo, e il ritrovamento anche in questo caso del corpo, con un dettaglio agghiacciante: Noemi era stata sepolta viva. I genitori di Marzo appresero della confessione e del ritrovamento in diretta: fu un momento stridente sebbene molto probabilmente casuale, perché, come talvolta accade, si allontanò l'attenzione dalla vittima e la si spostò sul suo carnefice e i parenti di lui. La posizione dei genitori di Lucio, di recente iscritti nel registro degli indagati per occultamento di cadavere, è stata archiviata.

L’ultimo tassello della cronaca nera in diretta riguarda invece il caso di Denise Pipitone. Scomparsa da Mazara del Vallo il 1 settembre 2004, di recente sono state riaperte le indagini sulla sua sparizione. Nelle scorse settimane, è stata perquisito il garage della vecchia abitazione in cui vivevano Anna Corona e Jessica Pulizzi, ex moglie e figlia di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise. Non si sa cosa cercassero gli inquirenti, ma le ricerche sono state accompagnate da una lunga diretta Facebook di una testata locale fuori dalla porta del garage, rilanciata poi da alcune testate nazionali. “I nostri smartphone ci chiedono solo di essere accesi e di essere portati con noi”, spiega a IlGiornale.it Stefano Cristante, docente di Sociologia della comunicazione all’UniSalento - dov'è anche presidente del corso di laurea in Scienze della comunicazione e delegato del rettore alla comunicazione istituzionale - e direttore della rivista internazionale “Hermes, Journal of Communication”.

Professor Cristante, come mai nel caso di Alfredino Rampi si scelse di mandare in onda, a reti unificate, le operazioni di soccorso?

“Non credo che l’obiettivo della diretta televisiva a reti unificate della Rai il 10 giugno del 1981 fosse quello di tenere inchiodati più di 20 milioni di telespettatori a una morte in diretta: in verità, prima che arrivassero le telecamere, tutto faceva pensare che si sarebbe potuto far vivere alle masse italiche un grande lieto fine, con il salvataggio di un bambino documentato dalla tv di Stato. Invece l’epica dell’impresa salvifica dovette lasciare posto alla costruzione narrativa di una tragedia. Questo cambio modificò la tv e modificò il pubblico. La partecipazione tragica è fatta di condivisione di dolore, un cemento persino più forte della gioia per un evento positivo. La diretta sulla morte di Alfredino fu il contraltare della conquista della luna del 1969. Un’impresa enorme, costosissima, memorabile, giocata nello spazio cosmico. E molti italiani parteciparono all’evento seguendo la tv. Invece l’episodio di Vermicino riguardò un anfratto apertosi nelle nostre terre, uno scivolamento in basso verso le viscere del pianeta e un bambino piccolo, di nemmeno dieci anni. Per la prima volta i produttori televisivi si resero conto che la dimensione narrativa era più importante del contesto e della gravità intrinseca della questione. Nel caso di Vermicino il set si dispose quasi naturalmente intorno alle telecamere: e quando arrivò l’amatissimo presidente Sandro Pertini la comunità nazionale ebbe anche il sigillo formale della propria sovrapposizione con lo Stato. Si poteva essere popolo anche attraverso la tv e la sua implacabile istanza documentale”.

Ne seguì una riflessione sull’invadenza della tv. Il fenomeno però continua a oggi in forme diverse?

“Credo che la tragedia di Vermicino abbia segnato un punto di non ritorno per la storia della tv. Chi parlò all’epoca di pornografia del dolore volle mettere in primo piano il cinismo dell’operazione, ma si trattò di atteggiamenti intellettuali ben poco comprensibili. La tv aveva invece intercettato un desiderio autentico di presenza e partecipazione popolare agli eventi: senza dubbio da allora questo desiderio si è ampliato, anche perché la tv stessa ha esteso enormemente la propria programmazione oraria diventando un produttore di immagini e suoni lungo le 24 ore di ogni giornata. La diretta della strage della Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 modificò ulteriormente il fenomeno, riportando a una visione globale della diretta tv e recuperando le modalità della visione dell’allunaggio. I sociologi Dayan e Katz dedicarono nei tardi anni ’80 un libro importante ai ‘media event’, che il traduttore italiano tradusse con l’efficace espressione di ‘grandi cerimonie dei media’. Vi è – secondo gli studiosi – una trasmigrazione del sacro nei grandi media event, che vanno studiati seguendo analisi sofisticate e particolari, proprio perché si staccano dalla quotidianità audiovisiva d’abitudine e mettono in condivisione il nuovo patrimonio condiviso dell’umanità, che non sono più le opinioni ma le emozioni”.

Quale può essere su una famiglia o su una comunità l’impatto mediatico di un fatto di cronaca vissuto in diretta, come fu ad esempio per Sarah Scazzi?

“Certamente le comunicazioni in diretta televisiva hanno un impatto maggiore sui protagonisti di qualunque altra modalità di informazione. E nel caso della madre di Sarah Scazzi che viene informata in diretta della morte della figlia vi fu un’impreparazione evidente da parte giornalistica. Ma il punto resta quello che dicevamo prima: attorno al medium tv si sono costruite comunità provvisorie enormi che hanno accompagnato la modifica del rapporto ‘evento-rappresentazione-emozione pubblica’”.

La Procura di Marsala ha riaperto le indagini sul caso Pipitone e la perlustrazione di un garage è stata trasmessa in tempo reale su Facebook. Come Internet e i social stanno modificando il fenomeno?

“Ora la tv non è più così centrale nella mente degli individui, perché ci sono altri media che consentono un pieno possesso partecipativo senza dover stare davanti alla tv. I nostri smartphone ci chiedono solo di essere accesi e di essere portati con noi. È cambiato perciò di nuovo tutto l’equilibrio della partecipazione”.

Quali sono i confini tra l’informazione e la cosiddetta “tv del dolore”?

“In generale, nella rappresentazione audiovisiva non ci sono più confini netti tra i generi. I palinsesti sono più morbidi e rigiocabili nell’arena dei recuperi, consentiti dalle Teche Rai e soprattutto dalla collocazione on line di una massa crescente di materiali televisivi. La tv è di fatto un ingrediente dei social, e i social sono trattati dalla tv come fonte. Non finirà certo qui. Il totem tv è in fase di smontaggio e rimontaggio, sempre più costretto a fare i conti con il desiderio di personalizzazione dei consumatori, indotto dalla percezione dei social e alla loro grammatica. Di tanto in tanto elementi comunitari attireranno di nuovo l’attenzione popolare e si ricostruiranno comunità di persone che abbandoneranno le cose che stavano facendo per gettare se stesse nella visione di un evento. Forse un elemento da tenere presente è il gigantismo fisico delle tv di nuova generazione, che occupano uno spazio bidimensionale ma davvero ampio. Lo sport televisivo, in questo senso, sta cambiando di nuovo natura, consentendo agli schermi di farci assistere quasi fisicamente a ciò che accade.

Ma i social ci seguono anche in bagno, anche a letto, ovunque noi stiamo: alla tv resta la sottolineatura, l’evidenziazione e la cornice cognitiva. Non è poco, naturalmente. E il dolore ne resta protagonista. Ma la tendenza vera è la contaminazione tra media e la ‘socializzazione’ della tv, cioè il suo obbligo a fare i conti costantemente con i social".

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